Il Meeting racconta Pasolini (e lo fa in modo coraggioso)

La mostra sul poeta di Casarsa è un collage che rende bene la figura di un uomo in lotta col mistero. E l'articolo di Testori scende nell’abisso delle conseguenze della condizione omosessuale

Quarantacinque minuti di video collage di interviste, documentari, poesie, disegni, scene di film non fanno nemmeno un’infarinatura di Pasolini, questo è fuori discussione. Ma la mostra “Io, Pier Paolo Pasolini” a cura di Casa Testori proposta al Meeting di Rimini riesce in quel breve lasso di tempo a dire quelle due-tre cose cruciali sul poeta di Casarsa che bisogna avere sempre nella testa e nel cuore quando si accosta la sua vasta produzione di romanzi, raccolte di poesie, saggi, documentari e film.

La prima e la più importante è che Pasolini ha espresso col massimo grado di struggimento e di intelligenza la ferita collettiva della fine del mondo pre-consumista, rendendola sensibile e intellegibile a chi si accosta alla sua opera, perché se ne è fatto carico attraverso la ferita personale dell’amore angoscioso per sua madre Susanna.

“Il tuo amore è la mia schiavitù”

È la divisione che vive dentro di sé, il desiderio del ritorno alla fusione nel grembo materno, che gli fa vivere con un’intensità stupefacente e con uno sguardo intrinsecamente religioso la nostalgia per la separazione dal mondo vitalista e miracoloso degli uomini di un passato finito da pochissimo, ma irrimediabilmente.

Divisione/separazione che lui stesso afferma essere alla radice della sua omosessualità nella poesia “Supplica a mia madre”: «Tu sei la sola al mondo che sa, del mio cuore,/ ciò che è stato sempre, prima d’ogni altro amore./ Per questo devo dirti ciò ch’è orrendo conoscere:/ è dentro la tua grazia che nasce la mia angoscia./ Sei insostituibile. Per questo è dannata/ alla solitudine la vita che mi hai data./ E non voglio esser solo. Ho un’infinita fame/ d’amore, dell’amore di corpi senza anima./ Perché l’anima è in te, sei tu, ma tu/ sei mia madre e il tuo amore è la mia schiavitù».

“Il mio piede è nella staffa”

E non a caso Susanna sarà Maria nel Vangelo secondo Matteo, film dove tutti gli attori sono dilettanti, e dove Gesù non sorride mai ma sua madre sì. Uno dei paradossi di Pasolini è quello di essere un ateo che non può fare a meno di avere costantemente uno sguardo religioso sulla realtà, che non può separarsi dal Vangelo non perché vi cerchi consolazione, ma perché vi trova stimolo intellettuale e “carnale”: nel 1975, pochi mesi prima della morte, Fabio Mauri proietterà il film sul Vangelo di Matteo sul corpo stesso del poeta.

Qui la mostra avrebbe dovuto proporre il finale della sua lettera a don Giovanni Rossi dopo che Pro Civitate Christiana aveva premiato il film: «Sono bloccato in un modo che solo la Grazia potrebbe sciogliere. Forse perché io sono da sempre caduto da cavallo: non sono mai stato spavaldamente in sella (come molti potenti nella vita o molti miseri peccatori): sono caduto da sempre e un mio piede è rimasto impigliato nella staffa, così che la mia corsa non è una cavalcata, ma un essere trascinato via, con il capo che sbatte sulla polvere e sulle pietre. Non posso né risalire sul cavallo degli Ebrei e dei Gentili, né cascare per sempre sulla terra di Dio».

Fascismo e comunismo

Ma i curatori si rifanno andando a pescare il poco noto documentario “Pasolini e la forma della città”, dove il poeta spiega in poche parole il duplice paradosso del suo essere un comunista nostalgico del passato pre-capitalista e della tradizione e il portatore della denuncia di un nuovo fascismo che si realizza attraverso la democrazia anziché attraverso la dittatura. Un’umile strada di sassi che sale verso Orte gli fa dire che occorre difendere gli antichi viottoli come le opere d’arte sublimi, occorre difendere il passato senza nome, popolare, perché la grandezza dell’Italia era la congiunzione fra cultura alta e cultura popolare; la vista di Sabaudia, città costruita dal regime fascista, gli permette di dire che il fascismo storico non ha modificato la sostanza degli italiani, il consumismo invece sì, perché «ha tolto realtà ai vari modi di essere uomini che l’Italia ha prodotto» e ha condotto all’omologazione, da cui si è salvata (siamo negli anni Settanta) solo l’umanità di Napoli, l’ultima città plebea.

La cultura media livellatrice dell’umano

La città dello scugnizzo Gennarino, personaggio simbolico a cui Pasolini scrive una lettera densa di amore, perché solo l’amore permette di introdurre alla realtà totale e sfuggire all’omologazione. Nulla Pasolini detesta più della “cultura media”, livellatrice dell’umano: esso è preservato solo negli umili che sanno appena leggere e scrivere e nella cultura alta di artisti e intellettuali; in mezzo c’è solo il male.

L’articolo di Testori

La mostra si conclude con la proiezione del testo che Giovanni Testori scrisse sull’Espresso all’indomani dell’uccisione del poeta per rendere ragione dell’accaduto. Scelta coraggiosissima dei curatori in epoca di ddl Zan, perché Testori scende nell’abisso delle conseguenze della condizione omosessuale per spiegare quella morte.

Scrive infatti: «Cosa lo spingeva, la sera o la notte, a volere e a cercare quegli incontri? La risposta è complessa, ma può agglomerarsi, credo, in un solo nodo e in un solo nome: la coscienza e l’angoscia dell’essere diviso, dell’essere soltanto una parte di un’unità che, dal momento del concepimento, non è più esistita; insomma, la coscienza e l’angoscia dell’essere nati e della solitudine che fatalmente ne deriva. La solitudine, questa cagna orrenda e famelica che ci portiamo addosso da quando diventiamo cellula individua e vivente e che pare privilegiare coloro che, con un aggettivo turpe e razzista, si ha l’abitudine di chiamare “diversi”. (…) Le ombre, allora, s’allungano; più difficile si rende la possibilità che quell’incontro infinite volte cercato, finalmente si verifichi; più difficile, ma non meno febbricitante e divorante. La vicinanza della morte chiama ancora più vita; e questo più o troppo di vita che cerchiamo fuori di noi, in quegli incontri, in quegli occhi, in quelle labbra, non fa altro che avvicinare ulteriormente la fine. Così chi ha voluto veramente e totalmente la vita può trovarsi più presto degli altri dentro le mani stesse della morte che ne farà strazio e ludibrio. A meno che il dolore non insegni la “via crucis” della pazienza. Ma è una cosa che il nostro tempo concede? (…)».

L’incontro mancato con Giussani

A Testori il tempo concesse che la via crucis approdasse a una resurrezione. A Pasolini no. Un grande pannello all’ingresso della mostra racconta che «la mattina del 3 novembre 1975 nel suo studio di via Martinengo Giussani apprende dal Corriere della Sera dell’uccisione di Pier Paolo Pasolini. Con lui c’è Laura Cioni, che scorge sulla scrivania una lettera indirizzata allo scrittore, che non sarà mai completata: “Esprimeva una totale consonanza con le posizioni da lui sostenute in tanti articoli sul Corriere della Sera. Nella lettera gli chiedeva di incontrarlo”».

Foto Flikr

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