Il Giobbe di Hadjadj è un «inno alla gioia che non censura il male»

Intervista ad Andrea Maria Carabelli, curatore italiano dell'opera del filosofo Hadjadj "Job, o la tortura degli amici", in scena dal 17 al 22 gennaio al teatro Franco Parenti di Milano. «Il testo mette in luce i problemi dell'uomo in quanto tale. Dice dell'attività dell'uomo, del dolore e della morte»

Dal 17 al 22 gennaio, il teatro Franco Parenti di Milano ospiterà l’opera “Job, o la tortura degli amici”, primo scritto drammatico del filosofo francese Fabrice Hadjadj. Tempi.it intervista il curatore dell’opera italiana, Andrea Maria Carabelli.

Come è nata l’idea di realizzare lo spettacolo in Italia?
Diciamo che è nata dalla conoscenza dell’autore, Fabrice Hadjadj. Prima, avevo inscenato una lettura dei suoi testi pubblicati in Italia e non sapevo che fosse un autore di teatro. Grazie al Centro culturale di Milano c’è stata la possibilità di conoscere e di approfondire il rapporto con lui. Il 25 marzo scorso, al “Cortile dei Gentili” di Notre Dame di Parigi, il Job fu recitato per la prima in francese. Hadjadj mi chiese se volevo essere io a metterlo in scena in Italia. Il “Teatro de gli incamminati” ha prodotto l’opera, che abbiamo recitato per la prima volta il 24 agosto al Meeting di Rimini.

Perché nel titolo non ha tradotto il nome di Giobbe?
Ho voluto mantenere il titolo originale francese. La parola job ci rimanda al termine inglese “lavoro”. Non volevo che l’opera fosse etichettata come teatro religioso. Anche perché – pur essendo la rivisitazione in chiave contemporanea d’una storia dell’Antico Testamento – il testo mette in luce i problemi dell’uomo in quanto tale. Dice dell’attività dell’uomo, del dolore e della morte.

Il sottotitolo, “La tortura degli amici”, sembra un controsenso.
Sì, perché sgombera il campo dagli equivoci intrinseci nel termine “amicizia”. Ognuno dei personaggi che incontra Giobbe cerca con buon cuore di risollevare le sorti del protagonista malato. Ma Giobbe non ha bisogno di palliativi, vuole solo compagnia nel guardare l’incomprensibile mistero della morte. Ho voluto essere io stesso a rappresentare i suoi amici, perché tutti sintetizzano un’unica posizione umana: l’imbarazzo di non sapere come porsi di fronte alla morte e, di conseguenza, indicare facili soluzioni ideologiche.

Eppure, alcune soluzioni proposte dagli “amici” di Giobbe sono condivisibili.
Assolutamente. Come nell’episodio della ragazza, quando sembra sbocciare l’inizio d’una storia d’amore con Giobbe. Ogni suo ingresso sul palco fa presagire allo spettatore un possibile sviluppo amoroso. E questo può sembrare un lieto fine: un affetto puro. Eppure, Giobbe comprende che neppure l’amore d’una donna può vincere la sua morte imminente. Non si torna indietro.

La messa in scena segue fedelmente il testo di Hadjadj?
Sì, ma ho introdotto qualche ritocco personale. Anzitutto, la ragazza della storia d’amore è un’infermiera, che si presenta sulla scena all’interruzione di ogni quadro. Così, può esserci una progressiva narrazione della storia d’amore e una pausa tra i diversi incontri del malato con gli amici. Il diavolo, poi, è recitato da un bambino. Avevo paura di fare una rappresentazione macchiettistica, mentre il diavolo di Hadjadj è sempre qualcosa che possiede una purezza fittizia. Qual è l’immagine di massima purezza? Un bambino. E la scena in cui il bimbo chiede a Giobbe di compiacersi del suo dolore è inquietante e strepitosa, così come il finale: un paradossale inno alla gioia. Un canto che non censura il male, ma che lo abbraccia perché mostra a Giobbe l’ampiezza del suo desiderio.

Dopo Milano, quali sono le altre tappe?
La tournée si sta costruendo giorno per giorno, organizzandoci a seconda delle richieste che riceviamo. Abbiamo fissato date in tutta Italia, da Matera fino  a Lugano, passando per Bergamo. Ma la cosa, a Dio piacendo, girerà molto di più. Noi, comunque, ci rendiamo disponibili a esportare la nostra rappresentazione ovunque.

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