Il fervore da alveare dei camerini della Scala poco prima che si alzi il sipario


Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti)

Milano, 22 marzo. Una domenica, nemmeno le sette del mattino. Una pioggia leggera. La città dorme. Dal sagrato luccicante d’acqua il Duomo solitario sembra alzarsi più severo. In galleria, quasi nessuno. Piazza della Scala è deserta. Mi piace Milano in queste ore, in cui mi sembra solo mia. Mi piace in quest’aria di pioggia fresca che la fa più nordica, e quasi parigina.

“Carmen”, annuncia la locandina sotto al portico della Scala. Costeggio via Verdi, e ancora solo il rumore di questa pioggia gentile. È nel silenzio e nella solitudine che i ricordi si alzano, prendono corpo e premono alla coscienza, come una folla che improvvisamente voglia entrare. Da giovane cronista ho avuto modo di conoscere la Scala dietro le quinte. Di ascoltare le lunghe, pazienti prove del coro; di assistere al vestirsi delle coriste, su nei camerini all’ultimo piano – che ora, immagino, con la ristrutturazione saranno scomparsi. È un ricordo, quello che si fa avanti stamattina nella città ancora addormentata, dai contorni vaghi del sogno.

Quando mancava mezz’ora alle venti, lassù nei camerini fremeva un fervore da alveare. Nelle piccole stanze era tutto uno stringersi i corsetti, uno strascichio di gonne lunghe, un annodarsi i capelli in trecce e chignon che le parrucchiere fermavano poi, stretti, con le forcine, correndo affannate da una donna all’altra. E si stendeva il cerone chiaro sulle facce, e si sottolineavano gli occhi con grossi tratti di matita nera. Forte, il rossetto, perché non sbiadisse sotto la luce dei riflettori. E un odore di amido e di ciprie, e una fretta ordinata e meticolosa. Sapendo bene tutte, in quel femmineo alveare che, alla fine, ogni cosa sarebbe stata perfetta.

Dieci minuti alle venti. Batteva forte il cuore anche a me, che ero solo una spettatrice. Immaginavo, giù nel foyer, l’affollarsi del pubblico frivolo e elegante. Lassù, invece, pareva d’essere nel ventre di una gran nave pronta a salpare. Un altoparlante scandiva la prima chiamata, poi la seconda. Da chissà dove, nei meandri della vecchia Scala, veniva la nota di uno strumento accordato – sola, interrogativa come una domanda. Dagli ascensori vedevi scendere crociati, o i mozzi laceri del vascello fantasma; e, come in un sogno, nessuno se ne meravigliava. Mi commoveva, alla terza chiamata, il correre delle coriste giù per le scale strette, trattenendo con la mano le gonne lunghe, come le dame dei secoli passati. Era così femminile e aggraziato quel gesto, e l’ondeggiare vaporoso delle gonne fruscianti. Poi, era l’ora, e io ormai ero in sala. Il pesante velluto del sipario si alzava, e mi pareva il diaframma fra la Milano vera e quel sogno splendente.

Quelle coriste, molte almeno, saranno anziane ormai, le belle voci asciugate dalla vecchiaia. Mi ricordo che in un abbaino cieco una di loro aveva dipinto una finestra, col cielo azzurro, e un sole splendente. Lo vedo ancora quel sole, giallo oro come un girasole, nel grigiore di questa gentile pioggia di marzo.

Foto Ansa

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