I nuovi dissidenti musulmani. «Contro un islam che reprime ogni forma di libertà»

«Diritto alla blasfemia: no ai processi medievali!». Intellettuali del mondo arabo si sono incontrati a Roma per denunciare la deriva oscurantista delle loro società

Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti)

Dietro le sbarre c’era già finito quindici volte, la prima quando aveva 19 anni; in questo l’arresto del 14 agosto non rappresentava per nulla una novità. Quando sei nato in un paese arabo e scegli di fare politica nella sinistra radicale extraparlamentare, di diventare un intellettuale socialista e di criticare le politiche economiche del tuo governo, puoi stare certo che finirai dietro le sbarre un certo numero di volte. Nahed Hattar, scrittore e attivista politico giordano, esponente della piccola minoranza cristiana ma agnostico sin da giovane, dirigente di gruppi dell’opposizione alternativa come Corrente progressista nazionale e del Movimento giordano della sinistra sociale, sapeva bene il prezzo che si paga quando non si scende a compromessi col sistema, in un paese dove le istituzioni dello Stato di diritto funzionano a intermittenza. Qualcosa di inedito stavolta però era accaduto: a Nahed non era mai successo di finire in prigione per gli articoli 150 e 278 del Codice penale. Cioè rispettivamente incitazione all’odio confessionale e al razzismo e pubblicazione di materiale inteso a offendere il sentimento religioso. E che cosa aveva fatto l’intellettuale giordano per cadere sotto i rigori della legge contro la blasfemia e di quella che punisce chi attizza guerre di religione? Aveva postato sulla sua pagina Facebook una vignetta che ritraeva il “dio del Daesh”, cioè la divinità come di fatto viene concepita dai militanti dell’Isis: un servo che deve soddisfare tutte le voglie del martire che si è immolato per lui. Il fumetto, intitolato “In Paradiso”, mostra un jihadista a letto dentro a una tenda in compagnia di due donne procaci. Dio stesso, rappresentato come un uomo anziano con la barba, si affaccia e si rivolge servilmente al martire dell’Isis: «Possa la tua notte essere piena di gioia, Abu Saleh. Ti serve qualcosa?». Il militante risponde: «Sì, mio Signore: portami un bicchiere di vino e di’ all’arcangelo Gabriele di portarmi un po’ di noccioline. Quindi mandami un servitore per l’eternità per pulire il pavimento e portare via i piatti sporchi. E non dimenticare di applicare una porta all’ingresso della tenda, così la prossima volta busserai prima di entrare, vostra gloria».

In poche ore sui social media era scoppiato l’inferno, le accuse di blasfemia erano piovute copiose. Nahed era corso ai ripari aggiungendo la spiegazione che quello ritratto era il “dio del Daesh” e non quello in cui credono la maggioranza dei giordani. Troppo tardi: il sito internet Assabeel, vicino ai Fratelli Musulmani giordani, pubblicava lo screenshot del post originario di Nahed Hattar manifestando grande scandalo. Le condivisioni del contenuto in qualche ora aumentavano esponenzialmente. E di lì a poco arrivava l’ordine del primo ministro in persona, Hani al Mulki, che dava istruzione al ministro degli Interni di arrestare lo scrittore.

Trucidato prima dell’udienza
Rilasciato dopo quattro dolorose settimane di detenzione – a 56 anni Nahed non era più un ragazzo, le sequele di una carcerazione del 1998 durante la quale era stato malmenato gli causavano problemi permanenti all’apparato digerente – contrassegnate da due ricoveri ospedalieri in condizioni quasi peggiori di quelle della cella alla prigione di Marka, Nahed Hattar la mattina del 25 settembre stava camminando insieme ad alcuni suoi familiari e all’avvocato verso il palazzo di Giustizia di Amman per l’udienza di apertura del suo processo. Senza agenti di polizia a proteggerlo, nonostante le centinaia di minacce di morte apparse contro di lui su Facebook e su Twitter e le richieste della famiglia alle autorità. Ad attenderlo vicino all’ingresso del palazzo c’era un certo Riad Abdallah, 49 anni, residente di un quartiere povero della capitale, imam part-time presso due moschee, legato da contratti di lavoro al ministero degli Affari religiosi e a quello dell’Educazione. Secondo i familiari di Nahed, Riad avrebbe combattuto da volontario in Iraq nelle file di al Qaeda al tempo dell’occupazione americana. Fatto sta che l’imam ha tirato fuori una pistola e ha sparato allo scrittore da distanza ravvicinata, fulminandolo. Il primo intellettuale assassinato per accuse di blasfemia in tutta la storia della Giordania.

Domenica 31 ottobre a Roma s’è parlato di Nahed Hattar. È stato uno degli argomenti della conferenza «Diritto alla blasfemia: no ai processi medievali!» organizzata dall’associazione internazionale Ad Hoc e da quella italiana Una via per Oriana. Dietro a un titolo tanto assertivo, l’iniziativa di chi ha voluto dare voce a intellettuali del mondo arabo impegnati nella lotta contro il totalitarismo islamista e contro le leggi che nei loro paesi conculcano la libertà di parola con la scusa di voler difendere l’onore della divinità e la pace sociale: la studiosa giordana Nadia Oweidat, il giovane intellettuale marocchino Kacem El Ghazzali, l’accademica tunisina Olfa Yussef, l’intellettuale marocchino Said Nachid, il politologo egiziano-tedesco ed ex Fratello Musulmano Hamed Abdel-Samad, più alcune voci europee. Randa Kassis, presidentessa di Ad Hoc, ha spiegato a Tempi che l’iniziativa «ha lo scopo di protestare in maniera specifica contro le leggi islamiche che, con il pretesto di “difendere l’onore dell’islam” e di lottare contro la blasfemia, “l’apostasia” o “gli insulti all’islam”, consentono di mettere a tacere con la paura e la repressione ogni forma di libertà religiosa e di pensiero e ogni forma di diritto alla libertà di coscienza. Gli intellettuali che abbiamo invitato a Roma lo testimoniano, essendo loro stessi musulmani di nascita e di cuore, ma contrari alla deriva sempre più oscurantista delle loro società in via di islamizzazione radicale da decenni». Randa Kassis è siriana, cristiana non praticante, oppositrice moderata del regime di Damasco. Non può tornare in patria e vive facendo la spola fra Parigi, Londra e Mosca. È stata membro per otto mesi del Consiglio nazionale siriano riconosciuto e finanziato dalla Turchia e dai paesi dell’Unione Europea, prima di essere esclusa nell’agosto 2012 per le sue denunce circa il crescente peso delle correnti islamiste nella ribellione. Oggi guida il Movimento per la società pluralista, che ha partecipato ai colloqui di Ginevra. Nahed Hattar, invece, era un sostenitore sfegatato di Bashir el Assad, unico baluardo della laicità in Medio Oriente. Ma sulla necessità di contrastare l’islam politico radicale non si notano distinzioni.

«Riad Abdallah è poca cosa. I proiettili che hanno ucciso mio fratello sono stati sparati il giorno che il primo ministro ha dato l’ordine di arrestare Nahed Hattar», ha dichiarato Majed Hattar, fratello di Nahed, che sta preparando una denuncia contro tutte le autorità che non hanno protetto la vita del suo congiunto. «Era un intellettuale coraggioso noto in tutto il mondo arabo, riconosceva l’islam come radice e fondamento della civiltà araba a cui si sentiva di appartenere completamente, e nello stesso tempo denunciava l’uso della religione islamica per scopi di oppressione politica nel mondo arabo di ieri e di oggi», dice di lui Wael Farouq, professore di lingua araba all’Università Cattolica di Milano e intellettuale musulmano egiziano. Sulla sua pagina Facebook ha analizzato la mentalità da cui nascono le leggi contro la blasfemia (che in una decina di paesi islamici può essere sanzionata con la pena di morte, in un’altra dozzina è punita con pene detentive) e i sanguinosi attacchi ai “blasfemi” mettendo a confronto due modi di essere musulmani: «Il musulmano crede che Dio lo protegga, l’islamista crede sia lui a proteggere Dio. Il musulmano si preoccupa della propria fede, l’islamista si preoccupa della fede degli altri. Il musulmano consulta il suo cuore e la sua mente, l’islamista consulta il suo sheikh e il suo imam. Il musulmano cerca quel che può farlo andare in paradiso, l’islamista cerca quello che manda gli altri all’inferno. Il musulmano, quando non ama qualcosa, non lo fa; l’islamista, quando non ama qualcosa, proibisce agli altri di farlo».

Questa non è democrazia
Sulle pagine del settimanale Vita Farouq ha denunciato la collusione fra islamisti moderati (i Fratelli Musulmani) e islamisti radicali in questo genere di delitti eccellenti: «L’assassinio di Hattar è un nuovo capitolo della spartizione di ruoli fra islamisti moderati e islamisti estremisti». I moderati armerebbero la mano degli estremisti diffondendo accuse di miscredenza contro gli intellettuali critici nei confronti dell’islam politico estrapolando qualche loro intervento, demonizzando la loro figura presso l’opinione pubblica e pungolando le autorità fino a quando queste non decidono di processare l’accusato. Prima che inizi il procedimento giudiziario o durante il suo svolgimento appare un estremista che lava nel sangue le offese alla religione. A quel punto gli islamisti moderati si dissociano, dichiarando che loro volevano una condanna processuale e non un’esecuzione sommaria. «È quello che è successo in passato in Egitto e che qualche settimana fa è accaduto in Giordania», conferma Farouq. «Farag Foda e Naguib Mahfouz, grandi scrittori egiziani, sono stati l’uno assassinato e l’altro gravemente ferito da fanatici islamisti dopo una campagna di diffamazione condotta da ambienti vicini ai Fratelli Musulmani, che li accusavano di apostasia. La verità è che fra islamisti moderati e islamisti radicali c’è una differenza di grado, non di sostanza. Attingono alla stessa ideologia, e i primi praticano la dissimulazione. Quando sono all’opposizione non dicono quello che pensano veramente, e anche quando salgono al potere per un po’ non rivelano le loro intenzioni. Ma poi viene il momento in cui si capisce che la loro idea di democrazia non ha niente a che fare con la democrazia: un esempio molto chiaro è quello di Erdogan».

Secondo Farouq episodi come quello di Amman indicano, paradossalmente, che qualcosa sta evolvendo nella direzione giusta: «Si tratta di reazioni rabbiose degli elementi estremisti davanti all’evoluzione della società nella direzione della tolleranza religiosa. In Egitto il gesto del presidente al Sisi che per la prima volta ha preso parte alla liturgia del Natale copto in chiesa è stato accettato dalla società egiziana, soprattutto nella classe media l’accettazione del pluralismo religioso è cosa fatta. Questi attacchi non sono semplicemente motivati da ostilità verso i cristiani o verso certe personalità, ma contro una convivenza che cresce». Qualcosa di simile dice Randa Kassis: «Gli islamisti sono cresciuti dappertutto e hanno persino vinto parecchie elezioni in Egitto, Tunisia o Marocco. Nello stesso tempo, tuttavia, non abbiamo mai visto e sentito tanti intellettuali e blogger che osino affermare la loro laicità, il loro rifiuto del fondamentalismo».

La censura a scuola
Farouq ammette che le società arabe sono comunque complesse, e che anche un paese filo-occidentale e impegnato nella guerra contro l’Isis come la Giordania può fare l’errore di credere di poter processare un uomo per una vignetta senza che una parte dei suoi cittadini consideri il tutto come un incoraggiamento a moltiplicare le minacce contro quell’uomo e come un via libera alla sua uccisione. Una vicenda contemporanea al calvario di Nahed Hattar lo evidenzia: una commissione nominata dal governo giordano ha revisionato i libri di testo scolastici, troppo appiattiti sulla visione islamista della società. Mentre prima i libri contenevano solo immagini di donne velate, uomini con la barba e moschee, ora compaiono anche chiese, donne senza velo (dentro casa) e uomini senza barba. Espressioni misogine e di disprezzo verso i non musulmani sono state eliminate. Risultato: ad Amman nel corso di manifestazioni improvvisate copie dei nuovi libri di testo sono state date alle fiamme.

@RodolfoCasadei

Foto: Ansa

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