Hitler in preghiera nel ghetto di Varsavia: la provocazione di Cattelan non provoca più

 Cosa insegna la collocazione dell’Hitler in preghiera di Maurizio Cattelan in un vicolo del ghetto di Varsavia? Che le performance degli artisti concettuali – li chiamiamo così anche se alcuni di loro respingono la definizione, ma visto come trattano male il pubblico è giusto che noi del pubblico li trattiamo con altrettanta degnazione – assomigliano sempre di più alla traiettoria della vita di un tossicodipendente. Come il tossicodipendente deve nel tempo aumentare sempre più le dosi della sostanza stupefacente che assume per ottenere l’effetto ricercato – euforia, piacere, rilassamento, alterazione della percezione della realtà, ecc. -, così Cattelan e simili devono continuamente alzare il livello della loro provocazione per ottenere gli scopi che si prefiggono.
Che sono tre, fra loro concatenati in una relazione strumento-fine. Il primo è quello di scandalizzare, indignare e suscitare ostilità con le loro “installazioni”. Tali polemiche e reazioni ostili servono al loro secondo scopo: far parlare di sé, ottenere una grande pubblicità gratuitamente. Infine con l’ausilio di quella sorta di “apparato militare-industriale” che sono i critici d’arte, i galleristi, i giornalisti di settore e gli altri artisti della stessa tendenza, il clamore si traduce in legittimazione, valorizzazione e promozione. Se docenti universitari, critici d’arte e artisti dicono che quella è arte, grande arte, allora deve essere per forza grande arte. Gli acquirenti – musei e privati – accettano fideisticamente il giudizio e comprano. Oh, se comprano.

Il meccanismo finora ha funzionato alla perfezione, ma forse comincia a mostrare la corda e il suo declino sta per iniziare. Lo lasciano pensare le sequele dell’ultimo eccesso targato Cattelan: la suddetta esposizione del bamboccino di Adolf Hitler inginocchiato in preghiera a mani giunte, vestito di grisaglia, in un angolo del ghetto di Varsavia. Le proteste per la profanazione della memoria delle vittime ebree del nazismo si sono fatte attendere. No, non c’è nessun refuso nella frase, avete letto bene: si sono fatte attendere. C’è voluto un mese e mezzo prima che il Centro Wiesenthal si degnasse di indignarsi, mentre il rabbino capo di Polonia ha addirittura dichiarato di trovare l’iniziativa «educativa». Brutte notizie davvero per Cattelan e la sua combriccola: se nemmeno la profanazione della Shoah garantisce più un ritorno pubblicitario all’altezza dello sfregio, questo significa che l’arma della provocazione comincia a sparare a salve.
La gente ormai ha fatto il callo a tutto: teschi ricoperti di diamanti (Damien Hirst), madri in agonia videoriprese dal figlio (Bill Viola), cadaveri umani imbalsamati (Gunther Von Hagens), crocifissi immersi nell’urina (Andres Serrano), ecc. Le reazioni irate a queste creazioni che si fregiano del titolo di opere d’arte sono marginali, l’encefalogramma del pubblico è quasi piatto. Una metà simula ammirazione, l’altra metà tace. Entrambe per la stessa ragione: non vogliono passare per ignoranti, retrogradi, incolti. Il consenso pressoché unanime della critica e lo strepitoso successo commerciale degli autori li intimidisce e li costringe all’ipocrisia o al mutismo. Se gli esperti dicono che quella è arte e se i presunti artisti sono ricchi sfondati e le immagini delle loro opere rimbalzano fra giornali e tivù, questo vuol dire che noi del popolo che restiamo perplessi stiamo sbagliando, dunque siamo ignoranti, dunque è meglio stare zitti o fingere ammirazione, per non essere derisi come zotici o emarginati come gente irreparabilmente retrò.

Il meccanismo ha funzionato fino ad oggi con la stessa efficacia intimidatoria – e con gli stessi benefici ristretti alla sua nomenklatura – del conformismo dell’opinione politica nelle democrazie popolari dell’Europa dell’Est. Ma rischia di fare la stessa fine, cioè di crollare rapidamente. Se le provocazioni ormai non provocano più nessuno, la grancassa mediatica emetterà suoni sempre più attutiti, i valori di mercato scenderanno, e tutta la mistificazione potrebbe svelarsi. Che cosa possono ancora inventarsi gli artisti concettuali per scioccare? Mostrare al pubblico un’interruzione di gravidanza mentre viene realmente compiuta da chirurghi? Riprodurre filmati di autentici stupri? Costringere i visitatori delle mostre ad atti sessuali, o autolesionistici, o sadici (che so, schiaffeggiare un modello che si presta alla tortura)? Non resta molto da sperimentare, ormai. Sì, ci sarebbe ancora tutto il vasto campo vergine delle possibili profanazioni dell’islam, finora frequentato solo da alcuni temerari umoristi, ma lì c’è da farsi male per davvero. E visto che gli odierni artisti provocatori non sono personaggi tragici, bensì comici, possiamo stare certi che passerà molto tempo prima che le arti visive e plastiche producano l’equivalente di un Salman Rushdie o di un Naguib Mahfuz, i romanzieri incorsi nei fulmini degli islamisti.

La débacle di Cattelan a Varsavia è una cosa seria. Mai il gioco era venuto così allo scoperto, mai il crescendo pubblicitario era stato così smaccato: sono dieci anni che il pupazzo di Hitler passa da un museo all’altro, da una location all’altra, senza smuovere troppe onde; portarlo nel ghetto di Varsavia è stato un po’ come sganciare l’atomica: un atto distruttivo e autodistruttivo insieme, compiuto per disperazione. Era come se dicesse: «Ma insomma, indignatevi una buona volta!». L’indignazione è stata tardiva e tiepida. Questa naturalmente non è una buona cosa per Cattelan, ma non lo è neanche per noi. Perché la memoria del male e dell’ingiustizia sono state ferite a morte, la pietà dei vivi per i morti è venuta meno. Il prezzo della rinuncia all’indignazione (vuoi per l’effetto assuefazione, vuoi per la volontà di sottrarsi alla violenza psicologica del provocatore) è comunque un’umanità peggiore: un po’ più indifferente, un po’ più cinica. Che lascia lordare dalle provocazioni artistico-mercantili i suoi simboli più sacri. Un quarto di secolo fa l’erezione di un monastero carmelitano e di una croce nei pressi di Auschwitz diventò una ragione sufficiente per una lunga crisi fra la Chiesa cattolica polacca e autorità ebraiche nazionali e internazionali. La preghiera cristiana delle carmelitane fu giudicata offensiva della sensibilità della maggior parte degli ebrei; un quarto di secolo dopo la preghiera del simulacro di Hitler in un altro luogo di martirio di genti ebraiche inquieta il solo Centro Wiesenthal, lascia indifferente la maggioranza assoluta di ebrei e non ebrei in Polonia e nel mondo, viene considerata «educativa» dal rabbino capo polacco.

Qualche anima candida farebbe notare che fra i fallimenti da elencare c’è anche quello dell’intento “morale” dell’artista: la tiepidezza delle reazioni mostrerebbe che è fallito l’obiettivo politico-morale di scuotere le coscienze, di provocare un soprassalto che spinga gli uomini a essere migliori e a cambiare il mondo per renderlo più giusto, di rendere la società consapevole che il male è dentro e intorno a noi e va riconosciuto come tale. L’arte contempoeanea non si occupa della bellezza perché la bellezza è rassicurante e perciò reazionaria; l’arte contemporanea si occupa del male del mondo in tutte le sue forme per suscitare una risposta umana. Insomma, l’arte contemporanea sta a quella della tradizione come, secondo Karl Marx, la filosofia dialettica sta alla filosofia classica: la seconda si limitava a intepretare il mondo, la prima lo vuole cambiare.

Pensare così equivale a concedere il beneficio della buona fede agli artisti contemporanei, e questo è francamente troppo. Restando alle arti figurative (la definizione diventa sempre più incerta col passare del tempo), glielo si poteva concedere all’inizio. Picasso, Dalì, Sironi, Boccioni, ecc. hanno rotto, nel loro tempo, gli schemi convenzionali nella sincera convinzione che fossero diventati formalistici. Le loro opere scelgono di essere difficili e astratte per dire qualcosa che non poteva più essere detto in un altro modo e per costringere il pubblico ad un’ascesi dell’intelligenza della realtà e del gusto. Hanno rotto con la tradizione per riconciliarsi con la tradizone a un livello più alto e più vero. Ma oggi? Oggi domina la mistificazione fatta passare per genialità, la falsità in nome dell’originalità. Come scrive Roger Scruton: «La mistificazione implica una misura di complicità fra il perpetratore e la vittima, che cospirano insieme nel credere ciò che non credono e nel sentire ciò che non sono capaci di sentire. Ci sono false credenze, false opinioni, un falso genere di competenza. C’è anche la falsa emozione, che si realizza quando le persone degradano il linguaggio e le forme nei quali il vero sentimento può radicarsi, in modo tale che non sono più pienamente consapevoli della differenza fra il vero e il falso». E ancora: «Il kitsch preventivo offre false emozioni e allo stesso tempo un finto rigetto della cosa che offre. L’artista finge di prendersi sul serio, i critici fingono di giudicare il suo prodotto e l’establishment modernista finge di promuoverlo. Alla fine di tutta questa simulazione, qualcuno che non coglie la differenza fra il farsi pubblicità (che è un mezzo) e l’arte (che è un fine) decide che dovrebbe comprare. Solo a questo punto la catena della simulazione termina, e il vero valore dell’arte post-modernista rivela se stesso: per la precisione, un valore che sta nello scambio monetario».

Credo che il concetto di “falsa emozione” possa essere di guida a noi non-esperti del pubblico. Chiedetevi quali emozioni avete provato guardando un’opera esposta alla Galleria degli Uffizi, o al museo del Prado o al Louvre. Probabilmente la vostra emozione si identifica con una o più voci del seguente elenco: ammirazione, elevazione, commozione, rapimento, senso di pace, attrazione inesorabile, gratificazione sensoria, gratificazione spirituale, sensazione dell’espansione del proprio spirito, sensazione di comunione con la realtà; forse anche gioia o estasi.
E ora provate a chiedervi se anche una sola di queste sensazioni sono sbocciate spontaneamente in voi alla vista di un teschio di Hirst o dello scultoreo dito medio della mano di Cattelan. È più probabile che abbiano suscitato in voi sconcerto, depressione, rabbia, paura, senso di vuoto, ecc. Ma la pressione dell’establishment culturale vi ha costretto a mettere in secondo piano i vostri sentimenti spontanei e ad assumere un’espressione facciale fra l’assorto e il disincantato: l’aria di chi ha compreso l’oscena verità sul mondo e offre allo sguardo altrui la sua espressione intelligente e smaliziata. Un’aria che fa comodo a tutti quelli che col mondo non vogliono impegnarsi, soddisfatti di aggirarsi fra le loro fantasie private. L’esatto contrario di quello che gli artisti postmodernisti dicono di essere. Perché in realtà semplicemente fingono di essere.

@RodolfoCasadei

Exit mobile version