I genetisti hanno fatto la fortuna dell’agricoltura italiana. Perché l’Expo dovrebbe metterli alla porta?

Sono state tantissime le innovazioni in agricoltura da Mendel a oggi. Abbiamo capito cosa sono i geni e come funzionano, ed abbiamo fatto una fatica tremenda a selezionare le piante che ora mangiamo con abbondanza. Non ci ricordiamo più delle carestie che hanno segnato le passate epoche storiche. Seminavi un chicco di grano e, al netto delle perdite e delle calamità, potevi ottenerne due, al massimo tre.

Semìno per semìno, gli uomini primitivi sceglievano le piante migliori per ripiantarle, ma coi secoli si sono scoperte tecniche via via più fini per ottenere il meglio dalle specie coltivate. A volte però anche i genetisti migliori si sono accorti che in natura non esiste sempre una caratteristica che invece sarebbe vantaggiosa. Un chicco più grosso, una pianta più piccola, una resistenza ad un virus dannoso. Queste vengono da mutazioni casuali rarissime, date ad esempio dagli errori che possono avvenire nei processi biologici, ma anche a causa di radiazioni come quelle solari.

L’esempio classico è il famoso grano Senatore Cappelli che, nonostante le sue qualità, era suscettibile alle ruggini e all’allettamento. È nata quindi l’idea di irradiare le piante per aumentare la velocità di mutazione. Molte piante, in questo ambiente controllato, sono morte. Altre sono sopravvissute e portavano, per caso, un tesoro, ovvero un gene positivo (ad esempio la resistenza alle ruggini) che, dopo mille e faticosissimi incroci, poteva essere inserito in una pianta coltivata per renderla migliore. È in questa maniera che, dal Cappelli, s’è ottenuto il Creso, gloria dell’agricoltura italiana.

Se non avete capito come funziona, è perché è davvero complicato: per migliorare una varietà ci volevano degli anni, con costi enormi che non potevano che ripercuotersi sulle sementi finite. Poi un giorno è nata l’idea: se ci sono alcuni batteri che possono inserire dei geni nelle piante, mutandole a loro piacimento, cosa succederebbe se prendessi il batterio, gli mettessi dentro questi “geni tesoro”, e lasciassi che fosse lui a fare tutto il lavoro per me?

Faccio un esempio: il mio povero pomodoro AAAA, ottimo da mangiare e con rese eccezionali, è afflitto da un virus tremendo. Trovo nella foresta amazzonica un pomodoro selvatico, brutto e piccolo, asprissimo, ma resistente al virus. Chiamiamolo BBBBr. Normalmente potrei incrociarli, ottenendo un AABBr, che forse ha il gene antivirale, ma che probabilmente è anche rachitico poco meno del suo progenitore. Ci vorranno innumerevoli tentativi e incroci per ottenere risultati accettabili, e potrei non raggiungerli mai, ad esempio se il gene del rachitismo è vicino vicino a quello r della resistenza. E se mi dicessero che è possibile prendere solo e soltanto il quadratino di Dna che determina la resistenza, creando direttamente un perfetto AAAAr? Chi sarebbe lo stolto a dirmi che ciò è sbagliato?

In realtà, forse, questo pomodoro marcirebbe solo soletto sullo scaffale: i consumatori lo guarderebbero spaventati, i governi lo metterebbero al bando, i grossisti eviterebbero di importarlo. C’è anche qualcuno che non lo vorrebbe all’Expo, nonostante rappresenti la più grande innovazione in agricoltura dopo Mendel. Avrebbe sulla fronte il bollino Ogm, e nessuno lo apprezzerebbe per quello che è: un pomodoro normalissimo, con qualcosa in più.

@FoodForJob

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