Gli errori della Civiltà cattolica

Il ragionamento di padre Carlo Casalone sul tema della legge e del referendum sul suicidio assistito fa acqua da tutte le parti

La recente, controversa presa di posizione della Civiltà Cattolica – organo della Compagnia di Gesù i cui testi, vale la pena ricordarlo, sono soggetti all’imprimatur della S. Sede – in merito alla proposta di legge sulla “morte volontaria medicalmente assistita” (altrimenti detta “suicidio assistito”, sfrondata dell’infiocchettatura linguistica politicamente corretta) non è che l’ennesima conferma, da un lato, del grave ma non nuovo stato confusionale in cui versa buona parte del cattolicesimo contemporaneo; dall’altro, e cosa più importante, dell’errore prospettico di fondo che, al di là del merito della questione (su cui torneremo a breve), connota la posizione del cattolicesimo “adulto” cosiddetto.

La stessa posizione e, quindi, lo stesso errore, per capirci, di quei cattolici favorevoli, per gli stessi motivi addotti dalla Civiltà Cattolica sul tema in oggetto, al ddl Zan e prima ancora alla legge Cirinnà sulle unioni civili.

Ridotto all’osso il ragionamento di p. Carlo Casalone è il seguente: in democrazia, stante la presenza di visioni e culture diverse, tutte legittime, occorre perseguire il bene comune possibile; ne consegue che una legge, seppur “imperfetta”, intanto è sempre meglio che nessuna legge, inoltre è senza dubbio preferibile ad un male maggiore. Da qui il suo endorsement alla proposta di legge citata. Essa infatti – pur divergendo “dalle posizioni sulla illiceità dell’assistenza al suicidio che il Magistero della Chiesa ha ribadito anche in recenti documenti” (si veda in particolare la Lettera Samaritanus bonus della Congregazione per la Dottrina della Fede) – con le opportune modifiche rappresenterebbe “un argine di fronte a un eventuale danno più grave”.

Laddove il danno più grave è individuato nel referendum indetto dall’Associazione Luca Coscioni con il quale si vorrebbe abrogare le sanzioni attualmente previste dall’art. 579 del Codice penale riguardante l’omicidio di una persona consenziente (per inciso: stesse argomentazioni sono state espresse dal giurista Giovanni Maria Flick in un’intervista ad Avvenire).

Nel merito, come già più di un commentatore ha notato, l’argomentazione basata sul principio del “male minore” addotta da p. Casalone (principio di per sé ammissibile in altri contesti e a certe condizioni), in realtà fa acqua da tutte le parti.

Primo, perché il referendum di cui si sta parlando – lo ha sottolineato il vice presidente del Centro Studi Livatino, Alfredo Mantovano, “va oltre la prospettiva eutanasica, perché fa dipendere la morte dal semplice consenso della vittima, senza che contino le sue condizioni di salute”; secondo, e come conseguenza del primo punto, le due iniziative non sono affatto alternative: in altre parole il referendum, naturalmente previo via libera della Consulta sull’ammissibilità dei quesiti, potrà andare avanti a prescindere dall’iter legislativo della progetto in esame; terzo, perché – come ha evidenziato sul Foglio il medico palliativista Francesco Cancelli (non esattamente l’ultimo arrivato) – la posizione di p. Casalone “anche senza certezza che il referendum venga approvato, un effetto l’avrebbe già raggiunto: per paura del potenziale male assoluto si finisce per cadere in un danno certo, quello dell’approvazione di una legge che per la prima volta nel nostro paese apre le porte alla morte su richiesta sconvolgendo l’intero impianto della medicina”.

Non solo. La posizione di p. Casalone, aggiunge Cancelli, “rischia, ancora una volta, di essere fortemente sfruttata dai promotori non solo della legge ma anche del referendum tanto temuto: come già visto in molte occasioni si griderà alla tonaca che sdogana le posizioni dei radicali, con un esito scontato e disastroso, del tutto contrario a quello atteso dall’autore”.

Ma, come si diceva all’inizio, prima ancora che sul merito è l’approccio culturale dell’intervento di p. Casalone che lascia alquanto perplessi. Un approccio, tipico di certo cattolicesimo sedicente “adulto”, che se può andar bene per chi muove da una prospettiva laica, non va bene affatto per chi argomenti muovendo da una prospettiva, che come tale ci si aspetta che sia da un gesuita, cattolica. L’alternativa insomma non è tra l’essere cattolici “adulti” e cattolici “infantili” o “adolescenti”; l’alternativa è tra l’essere cattolici e non esserlo. E questo vale ovviamente per tutti, anche per chi fa politica o qualsiasi altra attività.

Ciò che stupisce e sorprende (anche se fino a un certo punto) nelle argomentazioni di p. Casalone è che se ciò che dice l’avesse scritto tale e quale un non credente, nessuno si sarebbe accorto della differenza. Ma una differenza non può non esserci. Per il semplice motivo che la fede, contrariamente a certa narrativa che ha fatto breccia anche tra i cattolici, non è affatto un affare di coscienza. Non è un qualcosa di privato, di intimo, senza cioè che il proprio vissuto religioso abbia alcuna ricaduta pubblica.

Prevengo l’obiezione: ma la laicità delle istituzioni e della vita pubblica fanno sì che una democrazia non possa essere connotata da alcun tratto religioso, altrimenti diverrebbe una teocrazia il che è inaccettabile. Tutto vero e giusto. Ma c’è un “ma”. Il Catechismo della Chiesa Cattolica ricorda che ogni istituzione “si ispira, anche implicitamente, ad una visione dell’uomo e del suo destino, da cui deriva i propri criteri di giudizio, la propria gerarchia di valori, la propria linea di condotta”; tradotto: è una pia illusione immaginare una qualche “neutralità” della democrazia o della laicità. Balle. Ci sono e ci saranno saranno sempre differenti e contrastanti antropologie, cioè appunto visioni dell’uomo da cui tutto, anche (e nella fattispecie soprattutto) un progetto di legge come quello di cui stiamo discutendo. Ecco perché, prosegue il Catechismo, “nella maggior parte delle società, le istituzioni fanno riferimento ad una certa preminenza dell’uomo sulle cose. Solo la Religione divinamente rivelata ha chiaramente riconosciuto in Dio, Creatore e Redentore, l’origine e il destino dell’uomo. La Chiesa invita i poteri politici a riferire i loro giudizi e le loro decisioni a tale ispirazione e le loro decisioni a tale ispirazione della verità su Dio e sull’uomo” (CCC, 2244).

Come si vede, non soltanto non c’è alcun rischio di vulnus per laicità, ma addirittura la Chiesa invita i poteri politici ad ispirarsi alla visione dell’uomo propria della Chiesa. Perché? Perché è l’unica vera. Laddove ciò non accade, laddove cioè la politica segue altre concezioni, succede esattamente quanto descritto da S. Giovanni Paolo II nella Centesimus annus, citata subito appresso dal Catechismo: “Le società che ignorano questa ispirazione o la rifiutano in nome della loro indipendenza in rapporto a Dio, sono spinte a cercare in se stesse oppure a mutuare da una ideologia i loro riferimenti e il loro fine e, non tollerando che sia affermato un criterio oggettivo del bene e del male, si arrogano sull`uomo e sul suo destino un potere assoluto, dichiarato o non apertamente ammesso, come dimostra la storia”. E come dimostra, aggiungiamo noi, la storia recente.

Bisogna allora ribadire con forza che una visione “privatistica” della fede non corrisponde ad una retta visione cattolica, e che anzi tale approccio – in voga non a caso nel mondo protestante per il rifiuto di ogni autorità esterna – è stato ed è supportato da precisi ambienti laicisti dove si possono facilmente reperire grembiulini e compassi (ma anche da altrettanto precisi ambienti sedicenti cattolici che smaniano per avere una patente di modernità) – appunto per rinchiudere la fede negli angusti anfratti della coscienza in modo da lasciare campo aperto nel governo della polis e più in generale delle realtà terrene ad una visione dell’uomo radicalmente opposta a quella cattolica. Come è appunto quella soggiacente al progetto di legge in questione (per tacere del referendum promosso dai radicali).

Il cristianesimo è essenzialmente un evento storico e culmine di una Rivelazione che si è tradotta in una storia di salvezza; ne consegue che la fede non può non avere anche una traduzione politica. Traduzione politica che non significa vagheggiare il ritorno dell’Ancien Regime né tanto meno proporre improbabili modelli teocratici (per quello citofonare all’islam); traduzione politica della fede significa, semplicemente, una fede che si fa polis, mondo, storia.

Beninteso, la Chiesa per prima riconosce che le realtà terrene hanno una loro autonomia. Ma un conto è dire autonomia, altro conto è dire indipendenza morale, affermare cioè che tali realtà sono laiche se e soltanto se ispirate ad un principio morale di ordine relativistico o storicistico. Ciò che in ottica cattolica non è accettabile. Intendiamoci, non è la prima e non sarà l’ultima volta che su questa e altre questioni dal mondo cattolico arrivano segnali a dir poco preoccupanti.

Basti qui ricordare, ad esempio, oltre al dibattito sul già ricordato ddl Zan dove pure c’era chi sosteneva (sostiene) contro ogni evidenza che non era sbagliata l’iniziativa in sé di una legge ad hoc bensì alcune sue formulazioni, basti ricordare dicevamo la strabiliante intervista rilasciata proprio a Tempi.it da monsignor Paglia in merito alla triste vicenda di Alfie Evans – manco a farlo apposta il tema era l’eutanasia – quando il porporato commentando la decisione del giudice di mettere fine alla vita del piccolo Alfie disse che non era corretto parlare di “soppressione” bensì di sospensione di una situazione – testuale – di “accanimento terapeutico”. Peccato solo che nel caso del piccolo Alfie non era in corso alcuna terapia (non essendo la malattia da cui era affetto curabile), ma solo idratazione e ventilazione assistite. Ma tant’è, lasciamo stare.

Un’ultima considerazione. Nel suo intervento p. Casalone, parlando del quadro giuridico attuale cita la legge 219/2017 meglio nota come Dat. Sorvolando sul giudizio positivo che egli ne dà – la definisce “frutto di un laborioso percorso, che ha consentito di raccordare una pluralità di posizioni divergenti” – a un certo punto dice quasi con rammarico che ci si poteva fermare lì, alla Dat appunto, “anche perché – attenti ora – la legge è ancora poco conosciuta e praticata: dopo due anni dall’approvazione, solo lo 0,7% della popolazione aveva stilato le proprie Dat”.

Chiaro, no? Dopo due anni solo lo 0,7%, cioè una percentuale statisticamente irrilevante, aveva firmato la propria Dat. Ma proprio questo dato è la miglior prova della portata innanzitutto ideologica dell’operazione. Così come di stampo ideologica è stata l’operazione che ha portato alla legge Cirinnà (non per nulla anche in questo caso i numeri delle unioni civili dopo l’approvazione della legge sono risibili). L’obiettivo, nell’un caso come nell’altro, non era, non è sanare una situazione discriminatoria o estendere la sfera dei dritti, tutto ciò è secondario; l’obiettivo vero è far passare un messaggio, un principio culturale usando la leva legislativa.

Messaggio che tanto nel caso delle unioni civili quanto in quello del suicidio assistito e più ancora dell’eutanasia come pure nel caso dell’aborto ecc., è riassumibile nella piena, totale, insindacabile autodeterminazione del soggetto; di un soggetto cioè che pretende di essere lui e solo lui il padrone della propria vita decidendo ciò che è bene è male per sé (ciò in cui consiste l’essenza stessa del peccato originale, dice niente?).

Stando così le cose l’errore prospettico che soggiace all’intervento di p. Casalone è ancora più stridente nella sua miopia. La prospettiva andrebbe completamente ribaltata: dalla ricerca di una mediazione che non può non essere al ribasso in vista del bene comune possibile, ad una battaglia parlamentare (e non solo) che alzi l’asticella al piano dei principi e dei valori perché è lì che, dietro il paravento legislativo, i fautori dei “diritti civili” vogliono giocare la partita vera. Ecco perché la proposta di legge sul suicidio assistito non solo non va appoggiata, ma va affossata e basta, esattamente come andava affossato il ddl Zan.

Foto Ansa

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