Se il giudice libera cinque clandestini pieni di soldi e foto bombarole

Collocati in un centro di accoglienza si allontanano indisturbati dopo qualche ora, facendo perdere ogni loro traccia.

Cinque persone con inflessione siciliana si avvicinano al gate: controllando i documenti, la hostess nota qualcosa di strano e chiama la polizia. Le carte di identità risultano false; perquisiti i soggetti, sui loro telefonini sono rintracciati filmati di omicidi e foto con rituali di affiliazione. Domanda retorica: i cinque vengono rilasciati o sono condotti in carcere, in attesa di accertamenti? Quel che è scontato per la mafia non lo è per il terrorismo.

La storia che segue si è sviluppata in una città italiana dal 13 al 19 febbraio. Un gommone sbarca sulla costa – siamo all’estremità nord dello Jonio – con 14 persone a bordo. Al controllo, quattro presentano carte di identità rumene mai emesse dalla Romania e un quinto un documento ceco in apparenza originale, ma con false generalità. Uno di loro ha indosso ricevute di bonifici; le pen-drive e le sim card contengono, fra l’altro, foto e filmati di bombardamenti. Sono arrestati per ricettazione e uso di falsi documenti. Il Gip li interroga, convalida l’arresto ma li scarcera; perché? Perché i cinque dichiarano di essere fuggiti dalla Siria e dall’Iraq e di non avere nulla a che fare col terrorismo. Invece di verificare tale versione, il giudice la accetta senza incertezze, anche perché – così scrive – «appare del tutto irragionevole che eventuali terroristi arabi giungano in territorio italiano in condizioni precarie e a bordo di una piccola imbarcazione di fortuna, correndo il rischio elevatissimo di perire durante il tragitto in balia delle onde e del freddo». Aggiunge che le organizzazioni terroristiche non fanno arrivare così i propri adepti: «Addestrano i militanti e li infiltrano nel tessuto sociale dei paesi occidentali in maniera da preparare nei minimi particolari gli attentati».

Sarebbe interessante capire su quali fonti informative si basano queste convinzioni; per il Gip sono certamente profughi, da scarcerare e da accompagnare in questura perché ivi presentino la domanda di asilo. Condotti in questura, però, i cinque rifiutano di chiedere la protezione internazionale e rifiutano di sottoporsi al foto segnalamento. Non è certo che siano terroristi – qualche giorno di indagine farebbe meglio interpretare filmati, foto e provenienza dei bonifici –, ma sono sicuramente clandestini entrati in Europa con documenti falsi: dunque, da avviare a un Cie, in attesa di espulsione. E invece, previo contatto con la prefettura, sono collocati in un centro di accoglienza: dal quale si allontanano indisturbati dopo qualche ora, facendo perdere ogni loro traccia.

Non ha torto il ministro dell’Interno quando esorta a non cedere agli allarmismi: a condizione che non si creino occasioni di allarme. Da questa vicenda, tutt’altro che isolata, emergono due dati allarmanti: il primo è la persistente carenza di conoscenza fattuale del fenomeno terroristico di matrice islamica di una parte dei giudicanti italiani (pur essendoci giudicanti preparatissimi e inquirenti che fanno scuola). Non è una novità: datano almeno dieci anni le sentenze nelle quali i terroristi erano definiti “resistenti” e realtà presenti nelle black list dell’Onu e dell’Ue, come il Gruppo salafita per la predicazione e il combattimento, erano considerate innocenti associazioni. Il secondo è il mancato funzionamento delle norme sull’immigrazione. Per la cronaca: il giorno dopo la scomparsa dei cinque, il Comitato provinciale per l’ordine di quella città si è riunito per annunciare che da quel momento la Bossi-Fini sarebbe stata applicata con rigore. Confermando che fino al giorno prima si era scelto di non applicarla.

Ecco, per combattere l’allarmismo, che è un effetto voluto da chi lancia minacce terroristiche, va fatto funzionare un sistema di regole – vanno solo applicate – che impediscano a cinque stranieri con documenti falsi, denaro e immagini di morte di circolare liberamente in mezzo a noi.

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