Ghettizzano Berlusconi e chi l’ha votato. Ma le toghe non aggiusteranno l’Italia

L’inseguimento giudiziario dell’odiato Cavaliere non riguarda solo lui, ma tutti quelli che amano la res publica. Oggi ancor più che negli ultimi vent’anni.

Trentatré procedimenti penali, di cui sei ancora aperti, due condanne in primo grado. Il ventennale inseguimento giudiziario a Silvio Berlusconi vede il traguardo e vuole tagliarlo. Dall’autunno del 1994, anno in cui “scese” in politica, Berlusconi interpreta di fatto il ruolo dell’imputato. Il rush finale dell’assalto giudiziario è lanciato e non accetta rallentamenti, neanche rinvii di pochi giorni che non avrebbero nessuna conseguenza sui processi e sui tempi della prescrizione. Ancora una volta la lettura più plausibile di tanto accanimento, con annessa inevitabile e voluta grancassa mediatica, è di natura politica. Il leader del centrodestra, dato per spacciato politicamente da tempo, avrebbe dovuto ricevere la sanzione elettorale della sua uscita di scena. Così non è stato, la coalizione tra Popolo della libertà e Lega Nord ha sfiorato la vittoria elettorale contendendola sino all’ultimo voto al favoritissimo centrosinistra, e mancandola per uno 0,37 per cento. Il successo del Movimento 5 Stelle oltre le previsioni (25,5 per cento alla Camera dei deputati) e il flop dei centristi di Scelta civica aggregati da Mario Monti, accreditati in alcune generose previsioni di inizio campagna elettorale di una potenzialità del 20 per cento e fermatisi a un deludente 10,56, determinano una situazione nella quale non esiste una maggioranza chiara dettata dalle urne.

GRILLO SÌ, BERLUSCONI NO. La soluzione adottata in altri paesi di fronte a questi risultati, di fronte all’emergenza economica, è stata quella di governi di unità nazionale, di grande coalizione o di responsabilità istituzionale, esecutivi del presidente, governi di scopo… Le formule verbali e politiche possono essere le più varie e fantasiose, ma la sostanza è una, e il nostro paese l’ha già sperimentata negli anni Settanta: forze politicamente avversarie concordano una serie di punti programmatici urgenti sui quali una maggioranza trasversale si impegna a votare la fiducia; realizzato il programma e usciti dall’emergenza si torna al voto. In questa situazione, il leader della coalizione che, per sua stessa ammissione, ha preso più voti ma «non ha vinto le elezioni» si ostina in una pregiudiziale chiusura a qualsiasi trattativa con il centrodestra, producendosi in un umiliante corteggiamento ai grillini, che gli rispondono insultandolo.

CHIUSURA A PRIORI. In molti, anche autorevoli osservatori di cose politiche non propriamente filo-berlusconiani, si stanno chiedendo il perché di questa ostinata chiusura a priori, la considerano irragionevole, controproducente, autolesionistica e soprattutto dannosa per il paese. Sovviene in questo stallo il soccorso giudiziario, opportunamente amplificato mediaticamente (nella giornata in cui al Qaeda in Nigeria uccide sette ostaggi occidentali, tra cui un nostro connazionale, i giornali aprono sulla visita fiscale al Cavaliere) nella settimana decisiva per la tessitura di accordi: “Noi non trattiamo con Berlusconi perché è un delinquente” è la motivazione fornita su un vassoio d’argento dalla magistratura milanese. Non necessita una regia, bastano gli interessi convergenti di chi vuole vedere coronati vent’anni di sforzi giudiziari e di chi dopo vent’anni di paralleli ma inani sforzi politico-elettorali non ha certo remore garantiste se altri gli risolvono il problema.

IL GOVERNO NON DEVE NASCERE. La via giudiziaria alla caduta di un uomo politico o di un governo è stata inoltre già sperimentata con un noto avviso di garanzia (si trattava in realtà di un mandato di comparizione) inviato via Corriere della Sera a Berlusconi mentre presiedeva un vertice internazionale a Napoli il 22 novembre 1994. Il primo governo Berlusconi si dimise dopo due mesi, il proscioglimento giunse dopo anni. Anche Romano Prodi subì sorte analoga nel 2008, quando il ministro della Giustizia del suo governo, Clemente Mastella, si dimise a seguito delle indagini dell’allora pubblico ministero (oggi sindaco di Napoli) Luigi De Magistris. Anche Mastella fu poi prosciolto. Adesso non c’è un governo da far cadere, ce n’è uno che non deve nascere. Ma consegnare l’Italia all’ingovernabilità vuol dire scherzare col fuoco, anche perché solo la politica con realistiche proposte di governo può rispondere alla domanda di cambiamento presente in molti voti dati a Grillo non per adesione a suoi programmi ma per protesta contro l’immobilismo cui ci hanno consegnati l’impresentabilità di certi personaggi pubblici e il perenne stato da guerra civile strisciante alimentato da altri attori (politici e non) della lotta per il potere in Italia.

GRILLO NON PASSA IN LOMBARDIA. C’è un dato che dovrebbe far riflettere sulla natura del voto a Grillo e sulle reali intenzioni di chi l’ha espresso, ed è il confronto fra i risultati ottenuti per le elezioni politiche e per il governo regionale in Lombardia, Lazio e Molise. In Lombardia, dove ha vinto il centrodestra, il neo-governatore Roberto Maroni ha preso il 43 per cento, la sua coalizione nel voto per il Parlamento si è fermata al 37,6 per cento. Il candidato del centrosinistra, Umberto Ambrosoli, ha preso il 38 per cento nel voto regionale, il centrosinistra nel voto nazionale è al 30 per cento. Ai grillini è successo l’inverso, 13,6 per cento in regione 17,4 il voto nazionale. Lo stesso fenomeno si riscontra in Lazio, dove ha vinto il centrosinistra. Nicola Zingaretti è stato votato dal 40,65 per cento dei laziali, Pd-Sel per Camera e Senato dal 32 per cento (8 punti in meno). Storace in regione e il centrodestra al Parlamento hanno ottenuto gli stessi voti, 29 per cento. Il Movimento 5 Stelle segna una differenza di ben 6 punti tra il voto nazionale (26 per cento) e quello regionale (20 per cento). In Molise Pd-Sel passa dal 44,70 in regione al 30,3 per cento a livello nazionale (-14) e i grillini fanno il contrario: 16,76 per cento in regione, 10 punti in più (26,6 per cento) per le Camere nazionali.

UN NUOVO GHETTO IN ITALIA. Sicuramente un ruolo in questa differenza è giocato dai candidati, e dai risultati delle precedenti amministrazioni; ma c’è forse una considerazione di fondo che potrebbe spiegarla: quando è concretamente in gioco il governo della cosa pubblica, e il sistema elettorale permette una incidenza diretta del voto dei cittadini sul governo che si verrà a formare, persone credibili (come Roberto Maroni in Lombardia o Nicola Zingaretti in Lazio) e contenuti programmatici non fumosi fanno sì che il voto ideologico o di protesta si ridimensioni molto. Voler ghettizzare i dieci milioni di italiani che hanno votato centrodestra, rifiutando a priori un dialogo con i partiti che li rappresentano oltre che offensivo nei loro confronti è pericoloso. Negare dignità politica a una forza così radicata nell’elettorato, che in Europa è la componente più numerosa del Partito popolare europeo, è un vulnus proprio a quella normalità della vita democratica che si dice di voler finalmente introdurre nel nostro paese. Rifiutare sdegnosamente ogni forma di trattativa “con il Pdl” (magari sperando, come già ha fatto inutilmente Monti, di attrarre a sé parte del suo personale politico) in nome di una presunta superiorità etica e politica che gli elettori non hanno mai voluto riconoscere vuol dire solo continuare ad alimentare un clima da scontro permanente in cui gli elementi anti-Stato avranno sempre più campo. E non basteranno le procure a rimettere in sesto l’Italia che hanno contribuito a destabilizzare, servirà la politica: quella che ci sapremo costruire o quella che ci imporrà una sovranità (finanziaria o europea) che non abbiamo scelto.

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