Gay, immigrati e armi: Obama non vuole risolvere problemi ma “passare alla storia”

Obama ha mollato l’economia al suo destino per realizzare una nuova agenda ultraliberal.

Bill Clinton è arrivato alla Casa Bianca dicendo «it’s the economy, stupid». Il suo avversario, Bush senior, aveva guadagnato una popolarità immensa con la prima guerra del Golfo, ma aveva gettato il consenso alle ortiche della politica economica. Clinton ha fatto leva su questa debolezza elettorale per soffiare la presidenza ai repubblicani, e negli otto anni successivi – anni di vacche grasse – ha modellato il suo governo attorno alle questioni economiche, tenendo una linea moderata e generalmente prudente sui temi sociali ed etici. Barack Obama è arrivato alla Casa Bianca in tempi di vacche eccezionalmente magre e dopo un primo mandato passato a suturare, con risultati incerti, le ferite del sistema economico, ha svoltato a sinistra, verso altri lidi. Gli Stati Uniti non sono usciti dalla depressione, è piuttosto la depressione a essere uscita dalla mente di Obama, presidente in cerca di un posto nella sala di marmo dei grandi eroi americani. E quel posto lo si ottiene con una conquista rivoluzionaria, non con un patchwork di riforme equilibrate delle quali sarà difficile stabilire, a posteriori, la paternità.

Quando pensa alla sua “legacy”, l’eredità politica, il solco lasciato nella storia, Obama ha in mente l’abolizione della schiavitù, il new deal, i diritti civili; rivolge lo sguardo nell’orizzonte progressista delle riforme che sui giornali diventano immancabilmente “storiche”: la storica riforma sanitaria, la storica ammissione dei gay nell’esercito, lo storico schiaffo ai poteri della finanza, lo storico ritiro delle truppe e così via. Lo slogan del secondo e ultimo mandato di Obama potrebbe essere “è tutto tranne l’economia, stupido”, perché la politica economica che ha dominato l’immaginario collettivo e le preoccupazioni quotidiane degli americani è relegata nel flusso colloso degli affari quotidiani. La Casa Bianca evita di sottolineare le dispute sul bilancio, i tagli alla spesa pubblica e le tasse, faccende da sbrigare negli incontri a porte chiuse con i rappresentanti di un Congresso diviso e allergico alle decisioni.

Lo stesso presidente che ha vinto le elezioni a novembre con una piattaforma fatta di giustizia sociale e pressione fiscale sui ricchi ora si accontenta volentieri di sciogliere le magagne più ingarbugliate con accordi minori che rimandano invece di risolvere. Ha usato questa strategia nel negoziato con i repubblicani per evitare il “fiscal cliff”, l’ha ripetuta in occasione della disputa sul “sequester” (il sistema di tagli automatici alla spesa che è scattato all’inizio di marzo) e ha accolto con piacere l’idea di rimandare alla fine di settembre la vicenda dell’innalzamento del tetto del debito che ciclicamente blocca Washington. Obama ha presentato ieri, con due mesi di ritardo rispetto alla consuetudine, la sua proposta di bilancio per il 2014, e nell’oceano di provvedimenti fondamentali contenuti (o non contenuti) nel budget, il presidente ha voluto sottolineare con un’apposita conferenza stampa soltanto una voce: i 100 milioni di dollari che finanzieranno la Brain Initiative, l’ambiziosa iniziativa per mappare il cervello che promette di diventare il progetto genoma della nuova generazione.

Certo, la ricerca scientifica è un propulsore della crescita economica – lo “scienziato in capo” Obama non manca mai di ricordarlo – ma al presidente nato con vagiti messianici e cresciuto con istinti pragmatici ora interessa la dimensione immaginifica. Vuole fare una rivoluzione culturale e sociale, non si accontenta di picchettare la struttura del paese, passando per manutentore di un inaccettabile status quo. Così ha stravolto la gerarchia delle priorità, ha messo l’economia nello scantinato e ha elevato i conflitti sociali al rango della storia, secondo lo schema zapaterian-hollandiano. L’agenda obamiana prevede tre pilastri fondamentali: matrimonio gay, immigrazione e armi da fuoco.

L’avvocato dei diritti civili
Sui matrimoni fra omosessuali la decisione spetta alla Corte suprema, che ha in esame un ricorso sulla legge che bandisce il matrimonio gay in California e uno sulla disposizione federale, il Defense of Marriage Act, firmata da Clinton nel 1996, che vieta l’estensione dei benefit alle coppie omosessuali regolarmente sposate negli stati che lo permettono. Nel dibattito in aula i giudici hanno somministrato forti dosi di prudenza in vista della sentenza, inevitabilmente storica, che sarà pubblicata a giugno, ma Obama finora ha fatto tutto ciò che era in suo potere per propiziare un verdetto favorevole. Innanzitutto ha dato ordine al dipartimento di Giustizia di «far rispettare, ma non difendere» il Doma presso i tribunali federali, una dichiarazione de facto di incostituzionalità che difficilmente potrà lasciare indifferenti i pur imparziali giudici.

Prima ancora il presidente aveva dichiarato la fine della sua “evoluzione” sulla questione gay: dopo anni di riflessioni Obama ha concluso che devono godere degli stessi diritti delle coppie eterosessuali, aggiungendo prudentemente che le questioni sociali, come prescrive la consuetudine americana, sono appannaggio dei singoli stati. Era stato anticipato, come spesso capita, dallo sgargiante vicepresidente, Joe Biden, maestro nell’arte di travestire manovre politiche studiate da gaffe istrioniche.

Nel discorso per l’inizio del secondo mandato Obama ha affiancato ai nomi di Selma e Seneca Falls, località simbolo del movimento per i diritti civili e della lotta femminista, quello di Stonewall, il locale di Manhattan dove nel 1969 è scoppiata la prima rivolta del movimento gay. I poliziotti in borghese sgomberavano periodicamente il punto di ritrovo degli omosessuali di New York, ma una sera di giugno gli avventori hanno reagito e con cinque notti di tafferugli hanno dimostrato di essere pronti a portare la questione omosessuale al livello delle battaglie per i diritti civili. È stato il primo presidente da allora a citare l’episodio come esempio di emancipazione.

Obama s’intenerisce di fronte ai diritti lesi degli oppressi e si esalta per le opportunità che gli permettono di farsi paladino di chi combatte dalla parte giusta della storia. Quando le due cose coincidono è un trionfo. Così, ciò che la Casa Bianca non può fare a livello legale lo fa a livello della persuasione civile e politica, certa che qualunque cosa deciderà la Corte suprema il matrimonio gay ha già conquistato il cuore dell’America e non c’è dubbio alcuno su chi reciti la parte dell’oppressore e quella dell’oppresso in questa trama. Essere ricordato come l’avvocato della battaglia per i nuovi diritti civili è un bottino ghiotto per un presidente che aspira a diventare la personificazione del pensiero progressista.

Una questione di eredità
La riforma dell’immigrazione è l’obiettivo più abbordabile per Obama. Può contare su un significativo consenso bipartisan che deriva in buona parte dalle indicazioni arrivate alle ultime elezioni. I democratici vanno forte fra le minoranze in crescita, mentre i repubblicani appaiono disconnessi dall’identità mutevole dell’America; per riagganciarsi alle tendenze demografiche la destra è pronta a scendere a patti con l’aperturismo obamiano agli immigrati, come dimostrano le posizioni del senatore Marco Rubio, politico in forte crescita nelle file repubblicane, e dell’ex governatore della Florida, Jeb Bush, autore di Immigration Wars: Forging an American Solution, manifesto in uscita a maggio che potrebbe anche fungere da seminale piattaforma verso una candidatura alla Casa Bianca nel 2016.

Il testo passato dalla commissione bipartisan sull’immigrazione, la “gang of eight”, indica che una via per mettere d’accordo i partiti sulla questione esiste, si tratta più che altro di lavorare sui dettagli. Se il presidente vuole regolarizzare in tempi rapidi gli undici milioni di clandestini che non hanno precedenti penali e che accetteranno di pagare le tasse arretrate, i repubblicani si sono spaccati in due tronconi: i riformisti vedono l’immigrazione come l’unica speranza per riconquistare le fette di elettorato perdute lungo la strada; la corrente più tradizionale, guidata idealmente da Mark Krikorian, direttore del Center for Immigration Studies, rifiuta di fare concessioni che alienerebbero la base repubblicana e finirebbero per rafforzare il blocco progressista.

La settimana scorsa, in un evento di fundraising a San Francisco, Obama si è detto “ottimista” su una riforma che spera possa arrivare al Congresso in autunno per una rapida approvazione. La rapidità non è la caratteristica per cui sarà ricordata la macchina politica di Washington negli anni obamiani, ma quello che conta qui è il potere simbolico, la forza evocativa, la capacità di trasformare il volto del paese. E in America, terra d’immigrati, la faccenda del confine è una cosa seria, ha a che fare con la proprietà privata di Locke, con la “wanderlust”, la libido dell’esplorazione, ma anche con il regno delle opportunità e il sogno americano. L’immigrazione pesca direttamente nel pozzo dell’identità americana, e non è un caso che David Axelrod, compagno di mille battaglie obamiane, dica in televisione che «l’immigrazione per Obama è una questione di legacy». Dalla sua il presidente ha anche Mark Zuckerberg, leader di uno stato transnazionale travestito da social network.

L’ottimismo del presidente su una legge che pure per anni è apparsa irriformabile è bilanciato dalla prudenza circa le armi da fuoco, il terzo pilastro che sostiene la piattaforma liberal. L’effetto emotivo della strage di Newtown, in Connecticut, si è inevitabilmente dissipato nei meandri dello scontro politico. La National Rifle Association, la lobby delle armi da fuoco, ha visto aumentare a dismisura iscrizioni e consensi nelle sue roccaforti tradizionali, e la campagna progressista per limitare le armi da fuoco si è scontrata con la costituzione materiale di un paese dove la pistola è la garanzia d’indipendenza dai nemici esterni e dalle prevaricazioni dello Stato centrale.

I tasti intoccabili
«È più dura passare quella riforma», dice Obama, anche perché il rapporto di causazione fra il numero delle armi da fuoco e le grandi stragi che ciclicamente insanguinano l’America non può essere provato scientificamente. Ogni argomento a favore della restrizione trova sulla sua strada un argomento uguale e contrario che lo falsifica. Ma al fondo della disputa sulla polvere da sparo c’è sempre l’eterna lotta fra la libertà individuale e il potere dello Stato, fra l’amministrazione privata della propria difesa e la delega a un’autorità che impone anche il numero di proiettili che può contenere un caricatore.

Si va a toccare un punto delicato fra le fibre della muscolatura americana, un angolo morto per chi sta “dall’altra parte della pozzanghera”, come dicono gli americani. Ma è proprio sui tasti intoccabili che Obama si gioca il suo ingresso nella storia. Sistemare l’economia a forza di ritocchi e aggiustamenti è affare saggio ma assai poco rivoluzionario, mentre il presidente cerca gli strumenti giusti per rimodellare i connotati del suo nuovo mondo.

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