Il ritiro dei francesi dal Sahel è un disastro per l’Italia

L'annunciata fine dell'Operazione Barkhane mette a rischio i nostri soldati, che si apprestano a essere dispiegati nella regione nell'ambito della Task Force Takuba

Il calendario degli eventi di politica internazionale dei sette giorni fra l’11 e il 16 giugno è stato talmente intenso – riunione del G7 in Cornovaglia seguita dal summit della Nato, dal vertice Usa-Ue a Bruxelles e quindi dagli incontri del presidente americano Biden prima con il presidente turco Erdogan e poi con quello russo Putin – che fuori dalla Francia è passata quasi sotto silenzio una notizia di grande portata, che avrebbe dovuto avere una forte eco in Italia: il 10 giugno il presidente francese Emmanuel Macron ha annunciato la fine dell’operazione Barkhane, il dispositivo militare francese nel Sahel in funzione antiterroristica che nell’agosto del 2014 aveva raccolto il testimone dell’operazione Serval. Questa nel gennaio 2013 aveva fermato l’avanzata delle forze jihadiste dal nord del Mali verso la capitale Bamako.

Duecento soldati italiani nel Sahel

Barkhane è costituita da una forza di 5.100 uomini dotati di 3 droni, 7 caccia, 22 elicotteri, 10 aerei di trasporto, 290 blindati pesanti, 240 blindati leggeri e 380 mezzi logistici, appoggiati a 11 basi territoriali sparse fra Mali, Niger e Ciad. Nei quasi sette anni in cui è stata operativa, la missione ha messo fuori combattimento 1.200 terroristi appartenenti a formazioni affiliate ad Al Qaeda o allo Stato Islamico nel Grande Sahara, e ha sofferto la perdita di 45 uomini. Non ha però potuto impedire che si ripetessero gli attacchi ai villaggi del triangolo di territorio dove si incontrano le frontiere di Mali, Niger e Burkina Faso, e alle basi delle forze armate di questi tre paesi, attacchi che hanno causato migliaia di morti nello stesso arco di tempo: ne sono stati registrati 4 mila nel 2019, 3.500 nel 2020.

Perché l’Italia dovrebbe essere molto preoccupata della decisione del governo francese? Perché stiamo trasferendo nel Sahel un nostro contingente di 200 uomini, 20 mezzi terrestri e 8 elicotteri per assolvere i nostri impegni nei riguardi della Task Force Takuba, un dispositivo militare multinazionale che doveva essere, insieme a Operazione Barkhane, alle varie missioni europee di formazione delle forze armate e della polizia dei paesi della regione (Eucap Sahel Niger, Eucap Sahel Mali, Eutm Mali) e alla G5 Sahel Joint Force (una forza di 5 mila uomini organizzati in 7 battaglioni forniti da Burkina Faso, Ciad, Mali, Mauritania e Niger) uno dei pilastri della lotta al terrorismo jihadista che da più di un decennio infesta la regione.

La presenza francese è cruciale

Ma senza il pilastro centrale rappresentato dall’imponente e sperimentata missione francese, gli altri tre sono destinati a crollare miseramente. La cosa è tanto più grave in quanto è stato proprio il presidente Macron, alla fine del 2019, a invocare la creazione di una missione militare europea che affiancasse Operazione Barkhane, e a ottenere l’approvazione del progetto da parte dei presidenti africani nel vertice di Pau del gennaio 2020. Dopo di allora, una lunga lista di paesi europei, Ue e non-Ue, ha offerto la propria disponibilità a dare vita alla task force. L’elenco comprende Belgio, Cipro, Danimarca, Estonia, Francia, Germania, Grecia, Italia, Norvegia, Olanda, Portogallo, Repubblica Ceca, Regno Unito, Serbia, Slovacchia, Spagna, Svezia e Ungheria. Fino ad oggi, però, solo Francia, Estonia, Repubblica Ceca e Svezia, e più recentemente Italia e Grecia, hanno trasferito uomini e mezzi sul terreno. Gli altri paesi al massimo hanno spedito qualche ufficiale alle riunioni di coordinamento. Nessuno di tutti questi paesi, tranne la Francia, fornirà un contingente superiore ai 200 uomini a pieno regime.

Ancora nel febbraio scorso Parigi rintuzzava i critici di Operazione Barkhane confermando che l’operazione era indispensabile e sarebbe andata avanti. Cosa è successo per fare cambiare idea alla Francia nel giro di quattro mesi? Nella conferenza stampa di annuncio Macron ha detto che «la forma della nostra presenza come operazione militare esterna non è più adatta alla realtà dei combattimenti. Il ruolo della Francia non è quello di sostituirsi in permanenza agli Stati. Non possiamo liberare territori che subito dopo ricadono sotto il controllo del nemico perché gli Stati non si fanno carico delle loro responsabilità».

Macron lucra sull’aiuto europeo

Questo corrisponde certamente alla realtà dei fatti, ma il ridimensionamento dell’intervento francese non migliorerà la situazione, al contrario. Macron ha assicurato che una parte di truppe francesi resterà sul terreno (non ha precisato l’entità: «molte centinaia di uomini») e rappresenteranno «la spina dorsale» della Task Force Takuba. Più che rassicurare questa dichiarazione conferma i timori di chi fin dall’inizio ha sospettato che la proposta di una task force europea servisse solo a creare una sorta di “legione straniera” al servizio degli interessi francesi e funzionale a ridurre i costi materiali e umani che Parigi sopporta nell’area. A ciò si aggiungerebbe l’urgenza per Macron, in vista delle elezioni presidenziali dell’aprile-maggio 2022, di recuperare voti sulla sua sinistra per far fronte alla probabile avversaria al ballottaggio, Marine Le Pen, esponente della destra radicale.

La sinistra radicale ha più volte fatto sapere che non intende sostenere  Macron come male minore al probabile ballottaggio, ma il ritiro delle truppe francesi dal Mali, più volte richiesto dal suo principale leader, Jean-Luc Melenchon (ex socialista che oggi guida la formazione radicale La France Insoumise), potrebbe far cambiare idea per lo meno agli elettori di questa area politica. D’altra parte all’inizio di quest’anno per la prima volta dal 2014 un sondaggio ha rivelato che la maggioranza assoluta dei francesi (51 per cento) non è più d’accordo col proseguimento dell’Operazione Barkhane: alla fine del 2019 i favorevoli erano ancora il 58 per cento.

L’importanza strategica del Sahel

La partecipazione italiana alla Task Force Takuba, decisa dal premier Giuseppe Conte al summit di Napoli con Macron nel febbraio 2020, è stata giustificata con l’interesse italiano a stabilizzare un’area dell’Africa in mano a reti criminali e terroristiche che si arricchiscono organizzando il racket dell’emigrazione clandestina e che compromettono la stabilizzazione della Libia. Motivazioni geopolitiche più generali riguardano la necessità di prevenire l’espansione dell’influenza turca, russa e cinese nella regione. Su questo obiettivo strategico Francia e Italia, normalmente rivali nello scacchiere del Nordafrica e del Mediterraneo, si ritrovano alleate.

@RodolfoCasadei

Foto Ansa

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