Foreign fighters, perché l’Italia non è il Belgio (ma attenti a non diventarlo)

Nonostante il numero sia inferiore rispetto a quello di altri paesi europei, il problema dei combattenti stranieri e della minaccia che rappresentano riguarda anche il nostro paese. Intervista a Daniele Scalea

C’è la storia di Haisam Sakhan, un siriano di 48 anni entrato in Italia nel 1995 e residente a Cologno Monzese: arrestato durante la protesta all’ambasciata siriana di Roma nel 2012, Sakhan è partito per la Siria lo stesso anno, rientrando in Italia diverse volte tra il 2013 e il 2014, per poi trasferirsi in Belgio e infine in Svezia dove ha chiesto e ottenuto asilo politico. Nel frattempo nel 2013 è emerso però un video che mostrava Sakhan insieme ad altri miliziani della Suleiman Fighting Company mentre giustiziavano un gruppo di soldati siriani che erano stati fatti prigionieri. Identificato anche grazie a prove inviate dalla Polizia italiana ai colleghi svedesi, Sakhan è stato condannato all’ergastolo da un tribunale svedese per crimini di guerra.

O la storia di Fares Haboush, parente di Zahran Alloush, leader della fazione islamista Jaysh al-Islam: il giovane era residente a Gelsenkirchen, in Germania, ma aveva vissuto in precedenza tra Asti e Bolzano. Haboush è rimasto in Siria per un breve periodo nella prima metà del 2014, rientrato in Italia per poi recarsi in Germania. E quella di E.W.: partito da Milano per la Siria nel 2012 per combattere tra le fila della milizia islamista Ajnad Al-Sham, in seguito è divenuto addetto alla propaganda del gruppo armato. Il suo nome è emerso inizialmente, anche se con una posizione marginale, in un’indagine condotta in Sardegna, rispetto ai convertiti italiani radicalizzati attivi sul web. Sono solo alcuni “terroristi della porta accanto” aderenti al drappello siriano raccontati dal rapporto Destinazione Jihad. I foreign fighters d’Italia, a cura dell’Osservatorio sulla radicalizzazione e il terrorismo internazionale dell’Ispi.

Quasi tutti maschi (il 90,4 per cento), età media 30 anni, per lo più di origine tunisina, marocchina, siriana, residenti al nord e centro del paese – il 31,7 per cento degli 82 individui associati a un luogo di residenza vive in Lombardia, ma si registrano presenze significative anche in Emilia Romagna (12,1 per cento) e in Veneto (10,6 per cento), e tra le province, si conferma la rilevanza dell’area di Milano (13,4 per cento) –, i jihadisti in Italia «assomigliano per molti versi a quelli degli altri paesi europei», spiega a tempi.it Daniele Scalea, docente del master in Antiterrorismo dell’università Niccolò Cusano, «in gran parte musulmani dalla nascita ma con una sovra-rappresentanza dei convertiti (che sono sempre più zelanti della media), non molto agiati (da cui lo spirito di riscatto e la disponibilità a lasciare tutto per partire in guerra), con un curriculum criminale (che denota indole violenta ed agevola i contatti con i reclutatori)».

Nonostante il numero sia significativamente inferiore rispetto a quello di altri paesi europei (1.900 combattenti partiti dalla Francia e quasi mille dalla Germania e dal Regno Unito), il problema dei combattenti stranieri e della minaccia che possono rappresentare riguarda infatti anche il nostro paese, dove si contano 129 foreign fighters. Scalea commenta il profilo restituito dall’Ispi di 125 di loro che si sono recati in aree di guerra dall’inizio dei conflitti legati alle cosiddette Primavere arabe (Siria, Iraq e Libia) fino a ottobre 2017: «Una differenza che viene sottolineata è che si tratta per lo più di nati in terra straniera e di non cittadini. Ciò però ritengo dipenda puramente dalla dinamica immigratoria, ritardata in Italia rispetto ad altri paesi europei. Questo fa sì che vi siano meno musulmani in generale, in genere più integrati, e relativamente pochi nati in Italia e dotati di cittadinanza. Bisogna tuttavia considerare che l’Italia sta ripercorrendo le esperienze di quegli altri paesi, e dunque è probabile che salvo cambi di politiche migratorie e d’integrazione si allineerà presto con essi anche rispetto all’identikit dei jihadisti».

Non risulta che alcun foreign fighter presente nella lista ufficiale italiana sia stato coinvolto attivamente nel supporto e tantomeno nell’esecuzione di attacchi terroristici in Occidente: è la nostra intelligence che funzione bene?
Sì, agevolata da un numero decisamente inferiore di persone da tenere sotto controllo e dello strumento dell’espulsione, che si può utilizzare contro i non cittadini (la maggior parte dei radicali) per neutralizzarli senza aspettare che compiano una strage.

Soltanto una minoranza di 24 foreign fighters è di nazionalità italiana (il 19,2 per cento del totale): questo cosa ci dice?
Che i flussi immigratori sono di data più recente e che non è stato introdotto lo ius soli: molti jihadisti sono nati all’estero o, nati in Italia, non hanno ancora avuto modo o volontà d’ottenere la cittadinanza.

Il 22,4 per cento di loro (come il reclutatore Moez al-Fezzani) aveva trascorso un periodo in carcere prima della partenza per l’area del conflitto. Analisidifesa.it spiega che la radicalizzazione islamica nelle prigioni italiane è in aumento, come si può affrontare questo fenomeno?
Vi sono politiche e prassi specifiche sviluppate dagli esperti, ma non andrebbe trascurato, a monte, il creare una giustizia più rigorosa e meno lassista. Pensiamo a Ibrahim el Bakraoui: era stato condannato a 10 anni di carcere nel 2010 per una rapina nel corso della quale aveva ferito un poliziotto sparandogli con un kalashnikov, e successivamente aveva violato la libertà condizionale venendo intercettato in Turchia mentre tentava di unirsi allo Stato islamico. All’inizio del 2016 però era libero e in grado di condurre un sanguinoso attacco a Bruxelles.

Secondo lei esiste un rischio di infiltrazioni terroristiche con gli sbarchi di migranti in Italia?
È un dato di fatto che da anni anche i barconi sono tra i molteplici canali utilizzati da radicali e terroristi per muoversi. Non si tratta certo di criminalizzare tanti per la colpa di pochi, ma solo di esercitare il buon senso e applicare rigorosi controlli su chi entra nel nostro paese, con qualsiasi mezzo lo faccia, senza che l’emotività prevalga sulla razionalità.

Il 46,4 per cento del totale dei soggetti ha frequentato almeno occasionalmente un luogo di culto, otto foreign fighters frequentavano la moschea di viale Jenner a Milano: come è possibile monitorare questi luoghi?
La percentuale è senz’altro superiore, visto che per la gran parte del restante 55 per cento non si hanno dati. La libertà di culto non va confusa col lasciare mano libera agli estremisti. Tuttavia controllare le moschee non è semplice, poiché molti fedeli preferiscono riunirsi in luoghi improvvisati come garage, sottoscala o appartamenti privati, rendendo così complesso il quadro. Il rischio è che si applichino regole stringenti per le moschee “ufficiali”, salvo poi veder confluire i fedeli in quelle informali su cui non c’è alcun controllo.

Foto Ansa

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