Trattativa Stato-mafia, coinvolto Piero Grasso. Bordin lo aveva previsto: «È una guerra tra pm»

Tutta la telenovela dello scontro fra toghe nato all'interno della procura di Palermo che ha portato all'indagine più intricata e paradossale mai concepita su Cosa nostra

Mercoledì 12 giugno, sul Foglio, Massimo Bordin scriveva a conclusione della sua rubrica quotidiana: «Il prossimo capitolo della trattativa, già in avanzata stesura, riguarderà la direzione nazionale antimafia all’epoca della gestione di Piero Grasso». Tombola: ieri, 14 giugno, il Fatto quotidiano pubblica un verbale di interrogatorio del 1998 al pentito Gaspare Spatuzza. L’interrogatorio fu condotto proprio da Piero Grasso, all’epoca capo della procura di Palermo, e da Pierluigi Vigna, procuratore nazionale antimafia, e Spatuzza fornì ai due magistrati la sua versione sulla strage di via D’Amelio in cui fu assassinato Paolo Borsellino, la versione cioè che negli ultimi anni ha ribaltato la ricostruzione e le condanne a mandanti ed esecutori. Il titolo del Fatto sintetizza l’accusa: “Spatuzza rivelò a Grasso il depistaggio già nel 1998”. E secondo Bordin questa è la conferma che «ci troviamo in mezzo a una complicata serie di scontri interni alle procure», dice l’ex direttore di Radio Radicale a tempi.it.

Come ha fatto a prevedere tre giorni fa che il Fatto avrebbe adombrato qualcosa intorno all’attuale presidente del Senato, Grasso?
Non ho capacità di previsioni. È solo un’attenta osservazione di ciò che sta accadendo. Oggi in realtà stanno solo riaffiorando con queste accuse a Grasso i problemi della procura di Palermo, che ebbe un momento di forte tensione interna all’epoca dell’inchiesta su Totò Cuffaro nei primi anni del 2000. Allora tra i pm di Palermo c’erano due scuole di pensiero. Una faceva riferimento al procuratore capo Grasso e all’aggiunto Giuseppe Pignatone (poi capo della procura di Reggio Calabria e oggi di quella di Roma, ndr): prediligevano l’accusa di favoreggiamento alla mafia per l’allora governatore siciliano. L’altra scuola faceva capo ad Antonio Ingroia e all’allora sostituto Roberto Scarpinato, che prediligevano invece l’ipotesi di imputare Cuffaro per concorso esterno. Ingroia e Scarpinato erano sostenuti anche da un gran battage politico, che comprendeva l’attuale sindaco di Palermo Leoluca Orlando, il quale chiedeva, per solo il capo di imputazione, le dimissioni di Cuffaro. Ebbe la meglio Grasso, che poi vinse pure il processo e infatti Cuffaro oggi è in prigione. Grasso quindi ha vinto su tutta la linea, ma le tensioni rimasero forti. Quasi tutti quei pm palermitani all’epoca si sparsero ovunque. Scarpinato è oggi alla procura generale di Caltanissetta, Guido Lo Forte è a capo dei pm di Messina (e tra i papabili successori di Grasso alla Dna, ndr) e così via. Ovunque siano andati hanno portato con loro il ricordo di quegli scontri, che quindi si diffondono. Attilio Bolzoni su Repubblica l’altroieri ha poi ricordato correttamente che la corrente di sinistra delle toghe, Magistratura democratica, quando Grasso andò alla procura nazionale antimafia fece di tutto al Csm per evitare che Pignatone fosse nominato a Palermo, tanto da patrocinare l’elezione di Messineo. Che oggi è sotto procedimento disciplinare del Csm.

Intanto però il Fatto ha rivelato un altro particolare. L’ex procuratore nazionale antimafia Alberto Cisterna sarebbe stato interrogato dalla procura di Palermo nei giorni scorsi perché a sua volta adombra delle accuse nei confronti di Pignatone, relative all’arresto di Bernardo Provenzano. Ci spiega che sta succedendo?
Spiegarlo è velleitario, è tutto molto complesso e posso provare a descrivere i fatti. Un aspetto importante è che la storia della trattativa Stato-mafia si sposta continuamente di luogo e l’inchiesta trova sempre nuovi filoni, anche perché quelli cavalcati non sempre finiscono brillantemente. Adesso l’indagine si è spostata adesso a Reggio Calabria, perché Ingroia prima di darsi alla politica è riuscito ad aprire un fascicolo di inchiesta sulla mancata cattura di Provenzano e anche uno sulla cattura Provenzano: quindi sono indagati quelli che non l’hanno catturato e anche quelli che l’hanno catturato. Quest’ultimo filone troverebbe sostegno nelle dichiarazioni di Alberto Cisterna, che ha ricordato che c’è stato un informatore, che per il momento pubblicamente non è noto, che si era offerto di far catturare Provenzano: questo informatore fu sentito da Pierluigi Vigna, ma dopo due o tre riunioni venne lasciato da parte. Più tardi si arrivò la cattura di Provenzano. Cisterna ha da ridire su quest’ultimo passaggio nei confronti di Pignatone, che tra le altre cose è stato il pm che ha coordinato le operazioni d’arresto di Provenzano, ma anche il capo della procura reggina che interrogò Cisterna quando questi è stato ingiustamente accusato da un pentito.

Cosa c’entra Pignatone con lo scontro interno alla procura di Palermo di cui parlavamo?
C’entra perché Pignatone, quando era pm a Palermo, coordinò la famosa indagine Grande Oriente, basata sul mafioso Luigi Ilardo, un informatore del colonello Michele Riccio. Quest’ultimo, proprio sulla base delle presunte dichiarazioni che gli avrebbe riferito Ilardo, anni dopo l’uccisione del confidente è diventato il testimone su cui si è inizialmente fondato il processo al generale Mario Mori, in corso a Palermo. Durante quel processo, dove Ingroia con il pm Nino Di Matteo hanno condotto l’accusa, Pignatone in aula ha ricordato che mai Riccio, pur tenuto a farlo, aveva parlato di un presunto incontro con Provenzano a Mezzojuso. In questo modo Pignatone è diventato un testimone chiave della difesa del generale Mori. Pignatone, ricordiamo, è poi anche il magistrato che ha intercettato durante alcune indagini condotte a Reggio Calabria Massimo Ciancimino che cercava di riciclare denaro: fu l’intercettazione che portò all’arresto clamoroso di Ciancimino quando questi era il teste numero uno di Ingroia. Ci sono una valanga di elementi che stanno scatenando tensioni.

Intanto si apre un nuovo filone di scontri, quello relativo alla mancata cattura del boss Matteo Messina Denaro causata – questa l’accusa del Csm – dal capo della Francesco Messineo.
L’anno scorso il Ros indagava su Leo Sutera ritenendo con seri indizi che questi fosse in contatto con Messina Denaro, contemporaneamente però il Servizio centrale operativo e la Polizia, in coordinamento con la procura di Palermo, fecero scattare 46 arresti, tra cui anche Sutera, su autorizzazione del procuratore capo di Palermo Messineo. Tra le pieghe di un’intervista rilasciata ieri al Fatto, il sostituto procuratore palermitano Vittorio Teresi cerca di smentire le accuse che lui stesso avrebbe mosso a Messineo. Dice: «Quella del Ros è la strategia della corda lunga: individuo il soggetto che ha contatti con il latitante, lo lascio camminare perché, oltre al latitante, mi interessa il contesto. È la stessa che sostanzia la versione ufficiale della mancata perquisizione del covo di Riina. Una filosofia perdente e sbagliata». Ecco, è vero, proprio per questa diversità di vedute tra procura di Palermo e Ros, ovvero se sia meglio un arresto subito o più arresti e più verificati in seguito, il generale Mori è stato messo sotto processo.

E ora? Cosa prevede che accadrà nella prossima puntata?
Non sono Nostradamus. Però ci provo: credo che alcuni pm cercheranno di giocarsi la testimonianza di Cisterna. La verità, comunque, è che tra le toghe se le stanno dando di santa ragione, e in tutto questo s’innesca l’inchiesta sulla trattativa, che è determinata da questi scontri. L’obiettivo vero secondo me è Piero Grasso, per la rottura fortissima che si era consumata nel passato, e perché la teoria della trattativa nasce su un punto delicatissimo: l’omicidio di Borsellino, che segnò il punto massimo di rottura nella procura di Palermo. Quello che Travaglio e i suoi dimenticano sempre di scrivere, infatti, è che quarantotto ore dopo via D’Amelio, gli allora pm palermitani Lo Forte e Scarpinato chiesero l’archiviazione dell’inchiesta “mafia e appalti”, indagine sui rapporti tra Cosa nostra, imprenditoria e politica che era stata molto sostenuta da Falcone. Ottennero l’archiviazione da Piero Giammanco, il loro capo, il 15 agosto 1992: Giammanco è uno degli avversari storici di Falcone e Borsellino. Per cui oggi c’è una serie di magistrati che, con una complessa operazione, cercano di rifarsi la “verginità”.

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