Dante era drogato o narcolettico (sì, e Agatha Christie aveva i baffi di Poirot)

Le più svariate e assurde teorie per spiegare il genio dell'Alighieri cozzano col buon senso. Un divertente articolo dell'Osservatore Romano

Articolo tratto dall’Osservatore Romano – Dante cade «come corpo morto cade» nella Commedia, e nel corso delle tre cantiche dorme e sogna, ergo Dante era narcolettico si legge sulla rivista «Sleep Medicine». L’articolo, Dante’s description of narcolepsy, è stato ripreso e sintetizzato da Giuseppe Plazzi su «la Repubblica» del 29 agosto scorso. Non è la prima volta che il poeta per antonomasia è lo spunto per saggi di fantamedicina; l’Alighieri soffriva sicuramente di epilessia, spiegava Cesare Lombroso alla fine dell’Ottocento; non era malato — lo corregge a qualche secolo di distanza Barbara Reynolds — ma faceva uso di cannabis e mescalina. Altrimenti — scrive la studiosa americana in Dante, the poet, the man, the political thinker (2007) — come avrebbe potuto descrivere quell’incredibile fantasmagoria psichedelica di luci e colori che è il Paradiso?

Non stupisce tanto la stranezza delle diagnosi — pur di ottenere un titolo a effetto si accetta qualsiasi esagerazione, ed è normale, ormai, sfiorare l’assurdo per conquistare visibilità — quanto la seriosità pseudoscientifica con cui vengono argomentate queste ipotesi, indice di una mentalità che tende a medicalizzare e sezionare con il bisturi dell’insipienza ogni aspetto della vita umana, creazione artistica compresa.

Il fatto che Dante parli in prima persona nella Commedia non deve far dimenticare che il viandante accompagnato nel suo viaggio ultraterreno da Virgilio e Beatrice è un personaggio letterario; vivace, impulsivo, appassionato, ma pur sempre un personaggio, una maschera come suggerisce l’etimologia latina della parola persona, in cui l’esperienza dell’autore è sicuramente presente, ma rielaborata e trasfigurata in modo da lasciar cristallizzare il flusso indistinto della memoria nella perfezione formale di una terzina.

Chi sia stato veramente messer Durante di Alighiero degli Alighieri, morto a Ravenna il 14 settembre 1321 di ritorno da un’ambasceria a Venezia lo scopriremo in Purgatorio o (per i più fortunati) in Paradiso, quando potremo parlare direttamente con lui, ma al momento non ci è dato di oltrepassare il filtro della parola scritta e la soglia dell’intermediazione letteraria.

Evidentemente Vladimir Propp, la sua celeberrima morfologia della fiaba e il concetto di funzione narrativa, così di moda fino a qualche anno fa, sono già lettera morta. Far coincidere automaticamente autore e protagonista di un libro può portare a conseguenze comiche: nelle antologie del futuro potremmo leggere che Agatha Christie era belga e aveva i baffi come Poirot, Shakespeare era un principe danese con una situazione familiare complicata, Melville aveva una mascella di capodoglio al posto di una gamba e il pessimo carattere di Achab, Rex Stout amava le orchidee ed era misogino e pigro come Nero Wolfe, anche se nella realtà lo scrittore americano era magro, amante dello sport e molto innamorato di sua moglie, l’opposto speculare del detective montenegrino nato dalla sua penna.

A chi scrive noir e romanzi horror alla Stephen King potrebbe andare ancora peggio, quanto a fama postuma: ogni autore dovrebbe essere considerato un serial killer se per descrivere le scene più efferate bisogna necessariamente aver ucciso una dozzina di vicini di casa. Viene in mente un aneddoto citato spesso da Maria Luisa Spaziani: «Erano davvero così belli i fiori descritti nella sua poesia?» chiede un ammiratore a Montale, che risponde: «Francamente non li ho mai visti, mi piaceva il nome».

Dante narcolettico, dicevamo. Probabilmente messer Durante non l’avrebbe preso come un complimento — absit iniuria per chi soffre davvero di questa patologia — visto che le parole chiave del suo poema-mondo sono “move” e “disio”, movimento e desiderio, l’opposto del sonno: il pellegrino che attraversa le tre cantiche inizia il suo viaggio immerso nel torpore del male per scoprire passo dopo passo l’infinita vitalità del bene.

Non a caso, il fondo dell’inferno è una distesa di ghiaccio, il luogo del freddo e dell’immobilità perenne, dove le anime giacciono inchiodate a se stesse, intrappolate per sempre nelle loro ossessioni. «Di fronte alla lupa — spiega Plazzi nel suo articolo, citando il verso 52 del primo canto dell’Inferno — Dante si sente improvvisamente debole: “Questa mi porse tanto di gravezza”». Ecco un sintomo della narcolessia.

Ma è davvero così necessario ipotizzare una disfunzione del sonno Rem o un cedimento di tono muscolare patologico? Il pellegrino, camminando in un luogo sconosciuto, si trova improvvisamente davanti un animale decisamente ostile: non potrebbe trattarsi di banale paura?

Leggendo con attenzione la Commedia (tutta la Commedia, anche il tanto negletto Paradiso) ci accorgiamo che, in un certo senso, i narcolettici siamo noi. L’io narrante è decisamente più sveglio di chi legge i suoi versi, più lucido nell’osservazione della realtà, instancabile nel voler comprendere le ragioni delle cose, capace di descrive con la stessa attenzione e commozione l’inclinazione dell’asse terrestre come il viso della donna che ama.

Il personaggio a cui Dante presta il nome è in connessione empatica profonda con i suoi fratelli uomini, dannati o salvati che siano; forse per questo cade «come corpo morto cade» davanti al dolore di Paolo e Francesca. «Come è possibile che un dono divino come l’amore possa generare infelicità e morte?» è una domanda che lo interpella in prima persona, come continua a interpellare generazioni e generazioni di lettori. Neanche l’amore per Beatrice — di solito liquidata in fretta dalla critica come una pallida figura allegorica, simbolo della teologia — perde mai la sua concretezza, anche nei cieli più alti del Paradiso, a un passo dall’incontro diretto con la Trinità. Quando al posto della «gentilissima», nel XXXI canto, appare san Bernardo, Dante non si perde in convenevoli, la prima domanda è: «Lei dov’è?». La vedrà un attimo dopo lontana e vicinissima, al sicuro, inondata dall’«etterna fontana» dell’amore di Dio, ma sentirà comunque il bisogno di stabilire un contatto visivo e salutarla con un sorriso.

Il protagonista della Commedia non si lascia addormentare da nessun desiderio soddisfatto, perché sa il vero bene è quello che non ferma, che rilancia alla scoperta del nuovo, che «saziando di sé, di sé asseta» (Purgatorio, XXXI 129); dopo ogni traguardo raggiunto — affettivo e conoscitivo — c’è sempre moltissimo altro da desiderare. «Stay hungry stay foolish secoli prima di Jobs» scrive un anonimo blogger commentando l’ultimo libro di Franco Nembrini su questo tema (Dante, poeta del desiderio, Castel Bolognese, Itaca, 2013, pagine 198, euro 14) mentre la parodia in assoluto più sintetica della presunta narcolessia dantesca è un tweet di Alessandro Armando: «Nel mezz…. zzzzzz». Altrettanto divertente, sempre su Twitter, la segnalazione per un premio degli «Annals of Improbable Research» di Harvard: in questo caso le diagnosi impossibili sul sommo poeta troverebbero posto accanto ad altri studi bizzarri come la scoperta che lo sbadiglio è contagioso tra gli uomini ma non tra le tartarughe dalle zampe rosse, o un’analisi comportamentale, pubblicata sulle pagine del «British Journal of Psychology», sul fatto che da ubriachi ci sentiamo più belli.

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