Da dove sei venuto?

Articolo tratto dal numero di ottobre 2020 di Tempi. Questo contenuto è riservato agli abbonati: grazie al tuo abbonamento puoi scegliere se sfogliare la versione digitale del mensile o accedere online ai singoli contenuti del numero.

Le doglie sono cominciate nella notte. Ospedale chiuso per Covid, lei è sola e nemmeno il futuro papà può entrare. Si sentono al telefono e Francesca si affaccia a una finestra, sagoma scura contro la luce della camera, il ventre del nono mese. Così fragile apparentemente, davanti alla notte che l’attende. Passo accanto all’ospedale nel silenzio della sera, guardo le luci forti delle sale operatorie e quelle, miti, del nido. Ombre di infermiere passano veloci dietro ai vetri. Lui sta per venire al mondo. L’aria di questa prima notte d’autunno, densa di mistero.

All’alba in sala parto. A me, lontana, non resta che ricordare. Un’alba esattamente di settembre come questa, in Mangiagalli, l’antica maternità di Milano. Una vecchia ostetrica dura come un colonnello, impassibile alle grida delle partorienti. Le doglie che alla fine inferocivano, eppure addosso una strana certezza: lo metterò al mondo, sono capace, sono fatta per questo. Nella battaglia asperrima delle donne: per fare vivere, non per fare morire.

L’ultima spinta e quel suo primo vagito, infine, e che capriola del cuore nel vederlo, gli occhi già aperti e sbalorditi. Eccoti, sei arrivato.

Ventotto anni dopo, sta per venire al mondo il figlio di quel figlio. Il telefono tace a lungo. Nervosissima, a casa, nell’attesa sbrano pane e gorgonzola. I gatti di casa mi guardano apprensivi: che c’è, che succede? Mezzogiorno, e niente ancora. Come starà andando? Penso a lei che combatte, a lui accanto, teso, ammutolito. Agli ultimi minuti di battaglia, al primo vagito che eternamente annuncia un nuovo figlio al mondo.

Lo squillo di un whatsapp: «È nato». Foto: un elfo con un cappellino azzurro, le guance rosa e paffute. Resto a guardare il cellulare per dieci minuti, incredula: eccoti, sei arrivato.

E hai gli occhi, il naso, una bocca imbronciata, piccole perfette manine. Hai tutto. Nove mesi fa non esistevi e ora sei qui, vivo. Da dove sei venuto, Martino? Se rimani a pensarci, lo stupore ti travolge. Dal nulla, vieni? Com’è possibile? O arrivi invece da un altro inaccessibile mondo, dai pensieri di un Dio che da sempre ti ha custodito?

Se tu potessi parlare, bambino, che straordinaria storia racconteresti: di quel prima ignoto, che come per un ordine imperativo tutti dimentichiamo. Forse è per questo che i bambini piccoli non parlano? Per serbare quell’infinito segreto.

Ce n’è, nei tuoi occhi, come un’eco. Come lo spaesamento di chi si risvegli in un mondo del tutto altro. Se solo tu potessi raccontare, bambino.

E infine qui, in braccio a me. Io zitta di sbalordimento. Mi pare ieri che uscivo dal liceo, felice, nei giorni di scuola okkupata. E ora penso al Salmo: «Possa tu vedere i figli dei tuoi figli…».

Il tempo passa in un istante. O forse nemmeno esiste davvero? (Agostino scrive che «il tempo tende a non esistere», giacché si consuma nell’attimo in cui si compie). E in questa giostra siderale di ricordi e stupore ti guardo. Somigli a Pietro neonato. Da mesi, per strada, guardavo ogni bambino in passeggino, cercando di immaginarti. Sei qui ora. Hai occhi, bocca, naso, mani, cuore, respiri.
Il miracolo è ogni figlio che nasce, e che nove mesi fa non c’era.

Foto pxhere.com

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