Cento nuovi casi di Covid in media a settimana sarebbero considerati una trascurabile inezia in tutto il mondo, tranne che in un paese: in Cina. Il Dragone, che ha adottato la strategia “zero Covid”, reagisce a ogni singolo nuovo contagio come se fosse una nuova pandemia, imponendo lockdown selettivi a interi quartieri e città, imprigionando sani e malati in infinite quarantene.
L’emblema della strategia cinese che mira a debellare la circolazione del virus, pur non essendo scientificamente provato che sia anche solo teoricamente possibile, è la città di Shenyang. La capitale della provincia nordorientale di Liaoning, ha registrato l’ultimo caso di Covid il 30 luglio. Da quattro mesi, nessuno dei suoi otto milioni di abitanti si è ammalato, eppure pochi giorni fa il Partito comunista locale ha annunciato quella che ad oggi è senza dubbio la quarantena preventiva più lunga del mondo.
A chiunque arrivi in città dall’estero è richiesto di rimanere 28 giorni in quarantena in un hotel adibito alla prevenzione del Covid-19 più altri 28 giorni chiuso in casa propria, per un totale di 56 giorni consecutivi. Durante questi due mesi, i potenziali untori dovranno sottoporsi a tampone il primo, quarto, settimo, quattordicesimo, ventunesimo e ventottesimo giorno in hotel. Poi, una volta a casa, dovranno controllare il proprio stato di salute «tutti i giorni al mattino e alla sera», riportandolo alle autorità. Inoltre, una volta a settimana i funzionari predisposti chiameranno a casa del sospetto contagiato per sincerarsi ulteriormente delle sue condizioni, mentre i tamponi saranno “soltanto” due.
Se durante il soggiorno in casa, il malcapitato dovesse presentare uno qualunque di questi sintomi (febbre, tosse secca, stanchezza, perdita di gusto e olfatto, congestione nasale, raffreddore, mal di gola, congiuntivite, indolenzimento ai muscoli, diarrea), deve subito chiamare l’ambulanza per farsi trasportare in una clinica specializzata contro il Covid e restare in isolamento a tempo indefinito.
Chi invece volesse entrare a Shenyang da un’altra provincia della Cina, e non dall’estero, dovrà sottostare a una quarantena di 14 giorni, invece che 28, e tenere poi monitorate le proprie condizioni di salute a casa per i 14 giorni successivi. Se durante il confinamento in hotel è ovviamente vietato uscire dalla propria stanza, nel mese da recluso tra le mura della propria abitazione l’indicazione è di non mettere mai piede all’aperto se non per assolute urgenze.
Le autorità locali a Shenyang, come in moltissime altre parti della Cina, hanno anche imposto alle farmacie di schedare tutti coloro che acquistano medicinali per curare sintomi che potrebbero essere legati al Covid e di passare regolarmente i dati al governo.
Il fatto che il 77 per cento della popolazione cinese sia già vaccinato non ha alcuna importanza per il governo perché dietro ogni naso arrossato o febbriciattola di stagione potrebbe nascondersi un positivo. Se le restrizioni selettive sembrano funzionare nel contrasto alla pandemia – nell’ultimo anno e mezzo sono morte ufficialmente nel paese appena quattro persone – hanno però conseguenze drammatiche sulla vita quotidiana.
Basta un singolo caso perché un quartiere abitato da decine o centinaia di migliaia di persone finisca in quarantena per almeno due settimane con divieto assoluto di uscire. Lo stesso vale per le città. Come raccontato dall’Associated Press, Wang Lijie, residente a Pechino e partito per passare tre giorni di vacanza nel deserto dei Gobi, è rimasto bloccato per quasi un mese insieme ad altre 9.000 persone a Ejin Banner, nella Mongolia Interna, perché in una città vicina alcune persone erano risultate contagiate. In tre settimane e mezzo Wang ha dovuto sottoporsi a 18 test per il Covid.
Un altro simbolo della strategia “zero Covid” è la città di Ruili, al confine con il Myanmar. Nell’ultimo anno gli abitanti hanno subito quattro lockdown, uno dei quali della durata di 26 giorni, durante i quali è stato predicato il divieto assoluto di affacciarsi dalla porta di casa. Spesso, tra un lockdown e l’altro, molti negozi hanno scelto di non riaprire, così come le scuole sono rimaste chiuse per la maggior parte del tempo a meno che gli studenti non accettassero di restare a vivere dentro l’istituto con i professori senza possibilità di lasciarlo mai.
In un video diventato virale in Cina, un padre racconta che il figlio di appena un anno ha già dovuto sottoporsi a «74 tamponi». Un taxista ha invece rivelato di averne fatti 90 negli ultimi sette mesi. Basta anche un solo caso per far tornare l’intera città in lockdown e questo è il motivo per cui, negli ultimi dodici mesi, 200 mila persone hanno abbandonato la città, non riuscendo più a vivere. Per impedire lo svuotamento, il governo ha imposto 21 giorni di quarantena obbligatoria in hotel, a pagamento, per chiunque voglia uscire da Ruili.
Nonostante il 96 per cento dei residenti sia vaccinato e nell’ultimo mese ci siano stati appena cinque contagi, le restrizioni continuano. «Se l’epidemia a Ruili non raggiunge lo zero», ha dichiarato il vicesindaco Yang Mou, «ci potrebbe essere il rischio di contagiare anche altre città». Liu Bin, 59 anni, attivo nel commercio e rovinato dalle chiusure, ha espresso tutto il suo sconforto al New York Times: «Perché dobbiamo essere oppressi così? Seguo tutte le misure di prevenzione. Che cosa dobbiamo fare ancora noi persone normali per rispettare gli standard? Anche la mia vita è importante». Non nella Cina “zero Covid”.
Foto Ansa