Cari leader, le vostre promesse sul clima hanno un problema: i costi. Concentratevi su quelli

Lomborg dopo il «monumentale fallimento» della Cop26: inutile spararle grosse sulle emissioni zero, bisogna investire per rendere conveniente l’energia pulita

Il risultato della Conferenza Onu sul clima a Glasgow (Cop26) è stato criticato dai commentatori perché poco ambizioso. Alcuni lo hanno definito un «monumentale fallimento». Perfino l’ospite del vertice, il primo ministro britannico Boris Johnson, ha ammesso che l’accordo è «venato di delusione». Non è una gran sorpresa: storicamente la maggior parte delle promesse sul clima sono malriuscite.

Da quando sono cominciate le negoziazioni sul clima quasi tre decenni fa, alle promesse grandiose hanno fatto seguito spettacolari delusioni e forti incrementi delle emissioni. In una revisione inaspettatamente onesta delle politiche climatiche dell’ultimo decennio, il Programma ambientale delle Nazioni Unite ha rilevato che il livello delle emissioni globali dal 2005 è indistinguibile da quello di un mondo in cui non avessimo fatto nulla per affrontare il cambiamento climatico. Pensateci: pur con tutte le tante altisonanti promesse dell’ultimo decennio, compreso l’Accordo di Parigi, le emissioni sono aumentate come se non ci fosse in atto alcuna misura di sorta a tutela del clima.

Per i politici è facile e popolare alzare la voce sui pericoli del cambiamento climatico e promettere sicurezza attraverso grandiose politiche per il 2030 o il 2050. È molto più impopolare quando si tratta di chiedere agli elettori di pagare per queste politiche climatiche draconiane. Quando il presidente francese Emmanuel Macron ha introdotto una piccola tassa sul diesel, è stato ripagato con anni di proteste dei gilet gialli. A giugno, gli elettori svizzeri hanno detto no a una nuova carbon tax. Il governo del Regno Unito ha fatto marcia indietro sull’idea di introdurre un costoso obbligo di sostituzione delle caldaie domestiche alimentate a gas.

A Glasgow, il presidente americano Joe Biden ha ribadito il suo obiettivo di portare gli Stati Uniti a zero emissioni entro il 2050, ma questo avrà un impatto sorprendentemente ridotto. Anche se Biden riuscisse a raggiungere zero emissioni oggi stesso e a rimanerci per il resto del secolo, il modello standard dell’Onu mostra che ciò ridurrebbe l’incremento della temperatura entro il 2100 di appena 0,16 gradi.

Eppure questo provvedimento per il clima avrebbe un costo spettacolare. Un nuovo studio pubblicato dalla prestigiosa rivista Nature indica che ridurre le emissioni del 95 per cento entro il 2050 – quasi la promessa di zero emissioni fatta da Biden – costerebbe l’11,9 per cento del Pil, ossia più di 11 mila dollari attuali per ciascun cittadino americano, ogni anno.

Questi costi sono di gran lunga più alti di quanto la maggior parte delle persone è disposta a spendere: in un sondaggio, la maggioranza degli intervistati si è dichiarata indisponibile a spendere nemmeno 24 dollari l’anno. Non è praticabile l’idea di presentare per decenni conti che sono centinaia di volte più alti di quanto gli elettori sono disposti ad accettare.

Inoltre, il taglio delle emissioni non riguarda principalmente quello che fa il mondo ricco, perché la maggior parte delle emissioni nel XXI secolo proverranno dalla Cina e dall’India in compagnia del resto dell’Asia, dell’Africa e dell’America latina. Per tutti costoro l’attuale approccio al clima, cioè pagare somme enormi per ottenere riduzioni trascurabili della temperatura in cento anni, è evidentemente poco allettante. Poiché i loro cittadini devono cavarsela con la miseria di poche centinaia di dollari l’anno, essi comprensibilmente si preoccupano di più di come far sopravvivere I figli alla malaria e alla malnutrizione. Vogliono uscire dalla miseria, dalla povertà educativa e dalle scarse prospettive lavorative. Gli interessa tirare fuori sé e i propri figli dalla povertà grazie a una forte crescita economica.

Solo pochi giorni prima del vertice di Glasgow, 24 economie emergenti, tra cui Cina e India, hanno detto che la richiesta di raggiungere zero emissioni entro il 2050 è ingiusta, perché impedisce ai paesi poveri di sviluppare le proprie economie. Il presidente dell’Uganda l’ha messa giù in maniera anche più diretta: «Gli africani hanno il diritto di utilizzare energia affidabile ed economica». Non sorprende che queste nazioni siano intervenute contro la terminologia nell’accordo finale che avrebbe invitato all’eliminazione del carbone.

Abbiamo chiaramente bisogno di una via più intelligente per il progresso, altrimenti le prossime 26 conferenze sul clima saranno irrilevanti come le prime 26 ripetizioni. I leader dovrebbero concentrarsi sull’innovazione per rendere più economica l’energia pulita. I politici spesso dichiarano che il green è già oggi più economico, ma sono sbugiardati dall’evidenza: se fosse più economico, non avremmo bisogno di anni di mercanteggiamento per convincere centinaia di nazioni a promettere riluttanti che diventeranno più green.

In questo approccio più intelligente, dovremmo notevolmente intensificare gli investimenti nella ricerca e sviluppo di fonti energetiche a basse emissioni più economiche, da fusione e fissione, solare, eolico e batterie fino alla seconda generazione dei biocarburanti e altre idee brillanti. Questo non solo sarebbe molto più economico delle attuali politiche climatiche, ma porterebbe anche importanti svolte per fonti energetiche nuove, migliori e più green.

A Glasgow i leader hanno sciupato la chance di cambiare marcia e incrementare drasticamente i finanziamenti per l’innovazione green. Avranno un’altra occasione alla Cop27 del Cairo, Egitto, l’anno prossimo. Se riusciremo a innovare il prezzo dell’energia pulita tanto da portarlo al di sotto di quello dei combustibili fossili, tutti faranno il cambio.

Foto Ansa

Exit mobile version