Conviene farsi comprare dalla Cina? Oggi lo Zambia risponde

Si sono svolte ieri nello Stato africano le elezioni presidenziali. Un vero e proprio referendum fra il filo-cinese presidente uscente, Rupiah Banda, e lo sfidante, risolutamente anti-cinese, Michael Sata

Mentre in Europa ci si interroga su quali conseguenze produrrebbe un acquisto massiccio di titoli di Stato dell’eurozona da parte dei cosiddetti paesi Brics (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica), in Africa siamo già al plebiscito popolare sugli effetti socio-politici degli investimenti in loco del più grosso dei Brics: la Cina.

Mentre in Europa ci si interroga su quali conseguenze produrrebbe un acquisto massiccio di titoli di Stato dell’eurozona da parte dei cosiddetti paesi Brics (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica), in Africa siamo già al plebiscito popolare sugli effetti socio-politici degli investimenti in loco del più grosso dei Brics: la Cina.
Si sono infatti svolte ieri nello Zambia le elezioni presidenziali, i cui risultati definitivi saranno noti domani o dopodomani, e si è trattato di un vero e proprio referendum fra il filo-cinese presidente uscente, Rupiah Banda, e lo sfidante, risolutamente anti-cinese, Michael Sata. Il primo ha aperto le porte del paese agli investimenti di Pechino, che si sono concentrati nel settore minerario e hanno prodotto un balzo del 7,6 per cento del Pil lo scorso anno; il secondo è il portavoce dei minatori e dei disoccupati, infuriati per i bassi salari e perché gli investimenti cinesi sembrano aver inciso poco o nulla sui tassi di povertà nazionale: i due terzi della popolazione continuano a vivere sotto la soglia della povertà assoluta.

Com’è noto, la Cina è diventata in pochi anni il primo partner commerciale dell’Africa, con scambi pari a 115 miliardi di dollari nel 2010. Lo Zambia è uno dei paesi dove le attenzioni di Pechino si sono maggiormente concentrate, con investimenti di quasi 2 miliardi di dollari che si sono materializzati soprattutto nel 2009, quando le compagnie minerarie europee e americane hanno disertato le miniere di rame, bauxite e cobalto del paese a causa della crisi finanziaria globale, e i cinesi hanno colto al balzo l’opportunità per acquisire i diritti di sfruttamento per un tozzo di pane e con tassi di imposizione fiscale nulli o comunque vantaggiosissimi. Già negli anni Settanta lo Zambia aveva conosciuto un boom economico fondato sullo sfruttamento del rame, precipitato pochi anni dopo in una catastrofica depressione a causa della flessione dei prezzi delle materie prime. Stavolta la Cina ha fatto da ammortizzatore, colmando il gap fra il momento della caduta del prezzo del rame e quello della sua ripresa. L’anno scorso le esportazioni hanno toccato la cifra record di 7,2 miliardi di dollari, per il 70 per cento dovuti alle esportazioni di rame e per più di un terzo (2,8 miliardi di dollari) dirette verso la Cina.

Sindacati e partiti di opposizione protestano che la parte del leone delle entrate statali è stata reinvestita nelle infrastrutture del settore minerario, dove gli stipendi dei minatori restano infimi, e solo il 10 per cento nei settori delle costruzioni, dell’agricoltura, della manifattura e delle rivendite al dettaglio, dove sarebbe possibile creare una gran quantità di nuovi posti di lavoro. Effettivamente anche un recente rapporto della Banca Mondiale sulla situazione socio-economica del paese afferma che «la crescita economica non si è tradotta in una significativa riduzione della povertà». Il governo si difende affermando che gli investimenti cinesi hanno già portato alla creazione di 20 mila nuovi posti di lavoro in vari settori industriali, e che in caso di conferma del presidente uscente Banda altri 5 miliardi di dollari saranno investiti nel prossimo quinquennio e saranno creati altri 15 mila posti di lavoro; sottolinea pure che una quantità di scuole, ospedali e strade sono stati costruiti dal governo grazie alla recente crescita economica. I critici lamentano che le grandi imprese cinesi violano impunemente le leggi sul lavoro e sulla protezione ambientale, mentre una schiera di piccoli imprenditori cinesi sta impossessandosi di settori un tempo apannaggio di attori locali, primo fra tutti quello dell’allevamento dei polli. Le vertenze fra datori di lavoro e dirigenti cinesi da una parte, lavoratori zambiani dall’altra si moltiplicano, e lo scorso anno ha causato molto clamore la notizia di un incidente nel quale due dirigenti cinesi avevano ferito 13 dipendenti zambiani in sciopero con colpi di arma da fuoco.

Michael Sata si propone apertamente come punto di riferimento di tutti coloro che hanno motivi di rancore nei riguardi dei cinesi, da lui definiti sfruttatori della manodopera locale. Il suo programma prevede il ristabilimento di una tassa sui profitti minerari che l’attuale governo ha sospeso, e controlli sui capitali esteri per impedire che vengano facilmente rimpatriati. Banda invece ribadisce che «stabilità, sicurezza, prosperità» nello Zambia hanno bisogno di un’ulteriore rafforzamento della «forte e calda relazione» con la Cina. I sondaggi alla vigilia del voto davano il presidente uscente in leggero vantaggio, ma l’iscrizione di un milione di persone che non avevano votato alla precedenti presidenziali nelle liste elettorali fa pensare a un forte movimento di opinione pubblica a favore delle tesi anti-cinesi di Sata.

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