La guerra tra Stati Uniti e Cina sul cobalto del Congo

Dopo essersene disinteressata durante le presidenze Obama e Trump, l'America si accorge dell'importanza strategica delle ricchezze del paese africano. E spera in una inchiesta sulle tangenti di Pechino e nella rinegoziazione dei contratti

Il presidente del Congo, Felix Tshisekedi, con il presidente americano, Joe Biden, durante lo scorso summit sul clima a Glasgow (foto Ansa)

Gli Stati Uniti si sono resi conto del gigantesco errore di essersi disinteressati in termini strategici del Congo e delle sue ricchezze minerarie per tutto il tempo delle presidenze Obama e Trump, e ora cercano di rimediare creando fastidi alla Cina, che si è solidamente insediata nelle postazioni lasciate da loro vacanti. Se si tiene conto dell’importanza strategica della Repubblica Democratica del Congo si capisce perché da qualche mese il governo di Pechino e alcune imprese cinesi sono costantemente sotto accusa per vicende legate allo sfruttamento delle ingenti risorse minerarie congolesi.

Il rapporto sulle tangenti cinesi al Congo

È di pochissimi giorni fa la diffusione del rapporto The BackchannelState Capture and Bribery in Congo’s Deal of the Century frutto della collaborazione fra Plateforme de Protection des Lanceurs d’Alerte en Afrique (Pplaaf), Mediapart, l’Ong anticorruzione con sede a Washington The Sentry e il network giornalistico European Investigative Collaborations (Eic), che denuncia il versamento di 55 milioni di dollari di tangenti di provenienza cinese fra il 2013 e il 2018 all’entourage dell’allora presidente Joseph Kabila, come compenso occulto per la firma di un megacontratto da 6,2 miliardi di dollari per lo sfruttamento del rame e del cobalto congolesi concesso ad aziende cinesi.

Il rapporto costituisce un grande contributo alla campagna per la rinegoziazione dei contratti minerari fra il Congo e le compagnie straniere iniziata dal presidente Felix Tshisekedi nel maggio scorso, quando nel corso di una visita nella città mineraria di Kolwezi, nell’ex Katanga, dichiarò: «Non è normale che coloro con cui il nostro paese ha firmato contratti di estrazione diventino ricchi mentre il nostro popolo resta povero. È tempo per il paese di riaggiustare i suoi contratti con le aziende minerarie per stringere partnership reciprocamente vantaggiose. (…) Sono molto arrabbiato con questi investitori che sono venuti per arricchire soltanto se stessi. Sono venuti qui con le tasche vuote e sono ripartiti che erano milionari. È anche colpa nostra. Alcuni nostri compatrioti hanno negoziato malamente i contratti minerari. Peggio ancora, il poco destinato allo Stato se lo sono intascato loro».

Impegni cinesi non mantenuti

A finire nel mirino è stato naturalmente il megacontratto del 2008, col quale le aziende cinesi China Railway Engineering Corporation e Sinohydro, formando una joint venture di nome Sicomines con l’azienda di stato congolese Gecamines, si impegnavano a costruire strade, ospedali, ferrovie, scuole e reti elettriche in cambio dell’accesso a 10 milioni di tonnellate di rame e 600 mila di cobalto. Secondo le fonti congolesi, i cinesi si sarebbero impegnati a costruire 3.500 chilometri sia di strade che di ferrovie, 31 ospedali, 145 ambulatori, 2 mila alloggi popolari nella capitale Kinshasa e 3 mila nelle province, e infine 2 nuove università. In buona sostanza, la joint venture doveva spendere 3 miliardi nelle infrastrutture del paese e investirne altri 3 nelle infrastrutture minerarie vere e proprie.

Secondo il presidente Tshisekedi a tutt’oggi sono state realizzate infrastrutture soltanto per 825 milioni di dollari: nessun ospedale così come nessuna università sono stati costruiti, soltanto 356 km di strade asfaltate e 854 in terra battuta. Fra l’altro un emendamento all’accordo firmato nel 2017 (quando era ancora presidente Kabila) ha ridotto la quota di profitti da destinare agli investimenti infrastrutturali e ha aumentato quella che va agli azionisti.

Quei milioni dalle compagnie cinesi

Sui lavori della commissione incaricata dal presidente di rivedere i contratti, è arrivata ora la bomba della notizia delle tangenti pagate dai cinesi all’entourage dell’ex presidente Kabila. Sulla base di 3,5 milioni di documenti della filiale congolese della banca gabonese BGFIBank hackerati, è stato ricostruito che sui conti correnti di una società fantasma controllata da cinesi, la Congo Construction Company (CCC), sono transitati 55 milioni di dollari provenienti da varie compagnie cinesi operanti in Congo, in gran parte poi prelevati in contanti da emissari del clan Kabila o trasferiti sui conti correnti di società  amiche.

La filiale congolese della banca del resto è di loro proprietà: Gloria Mteyu, sorella di Kabila e Aneth Lutale, cognata di Kabila e moglie dell’amministratore delegato Francis Selemani, fratellastro di Kabila, sono le azioniste di maggioranza. Dei 55 milioni di dollari, 41 sono stati prelevati in contanti fra il gennaio 2013 e il luglio 2018, e di questi di almeno 30 si può affermare con certezza che hanno beneficiato il clan Kabila, singole persone o compagnie. Quando l’uscita di scena del presidente è apparsa imminente, le aziende cinesi hanno recuperato 10 milioni di dollari già versati con prelievi di contanti, nonostante una procedura disciplinare contro la banca fosse già in corso.

Dietro all’offensiva c’è Washington, ma…

Che dietro all’offensiva anticinese in Congo ci siano gli americani è il segreto di Pulcinella. Scrive il New York Times del 20 novembre scorso: «Pubblici ufficiali congolesi stanno procedendo a una revisione completa dei passati contratti minerari, un lavoro che stanno conducendo con un aiuto finanziario da parte del governo americano che è parte del suo più ampio sforzo contro la corruzione». Già Jeune Afrique aveva anticipato la notizia: «Sostenuto dagli americani», si leggeva sull’edizione online del 15 settembre, «Félix Tshisekedi si è impegnato a rivedere tutti i contratti approvati sotto il suo predecessore Joseph Kabila, fra cui quelli firmati coi cinesi». Cinesi che, come si legge nello stesso articolo del New York Times, «stanno vincendo la corsa (alle energie rinnovabili – ndt), dal momento che sia le amministrazioni Obama che quella Trump sono rimaste inerti mentre una compagnia sostenuta dal governo cinese comprava due dei più grandi depositi di cobalto del paese negli ultimi cinque anni».

Il giornale si riferisce alla China Molybdenum, che ha comprato dall’americana Freeport-McMoRan due grandi siti di cobalto per 3 miliardi di dollari, e che è coinvolta in pieno nello scandalo della BGFIBank, avendo fra l’altro acquisito la CCC nel 2018. A questo punto gli investitori cinesi, appoggiati da banche pubbliche del loro paese con linee di credito per un totale di 124 miliardi di dollari, controllano il 70 per cento di tutto il settore minerario del Congo, e in particolare 15 delle 19 miniere che producono cobalto, il minerale indispensabile alla produzione di auto elettriche. Attualmente il 70 per cento di tutto il cobalto del mondo è controllato e processato dalla Cina. E per questo bisogna dire grazie anche a Hunter Biden, il figlio del presidente americano Joe Biden: la società per la gestione di capitali di cui è socio, la Bhr, la cui quota di maggioranza (70 per cento) è detenuta da investitori cinesi, ha fatto da mediatrice nell’acquisto da parte della China Molybdenum del sito di Tenke Fungurume, che da solo assicura una produzione di cobalto superiore a quella di qualsiasi altro paese al mondo.

Biden promette all’America e al mondo un futuro imperniato sulla mobilità elettrica, ma i minerali per realizzare il genere di veicoli necessari li controllano i cinesi, grazie anche al fiuto per gli affari di suo figlio.

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