Come uscire vivi dall’età della paura senza «quaerere Deum»?

Vacillano di fronte al vigore del fanatismo i nostri “microcosmi di diritti”. Vivendo come se la morte non esistesse, ne siamo divenuti schiavi. Cosa resta di noi? La sete di una Verità più forte del Niente. E la possibilità impensabile della Sua compagnia

Questo articolo, tratto dal numero di Tempi in edicola, fa parte della serie “Ragione Verità Amicizia”, il manifesto dei nostri vent’anni e della Fondazione Tempi (una proposta che si può sottoscrivere in questa pagina).

Un amico mi domanda: è, questa nostra, l’età della paura? Così sembrerebbe, a sentire quel che si dice nelle aule di scuola o sugli autobus e a giudicare dall’aria ostile e guardinga che si respira per strada; un’atmosfera cupa e sguaiata, scomposta e tremante.

La crisi, dapprima, ha fatto il suo lavoro logorando generazioni disabituate al bisogno, borghesemente depauperate, e perciò impreparate a concepire il sacrificio. Generazioni affettivamente scariche, che non sanno l’amicizia; né conoscono l’amore, tanto quello fraterno, paterno, filiale, che quello coniugale, vividamente venato d’una traccia di verginità, che ha rimesso in piedi il Paese messo in ginocchio, appena pochi decenni fa, da prove ben più dure di quelle che stiamo patendo noi. Più dure, ma più umane e forse per questo più lievi, non letali come quelle che devastano ora individui soli per scelta, per distrazione, per una eredità, immeritata e meritata al tempo stesso.

Ombrosi e incattiviti, in molti tentano di difendere un esiguo spazio di benessere, diffidando di tutti e di ciascuno, confidando forse nel valore liberatorio di una pubblica pena, sommaria ed estesa, da comminare ai colpevoli, ai nemici, cioè, a quasi tutti gli altri. Salvifico artificio del diritto penale, utopia tecnologica, diritti individuali sono l’idolatrico surrogato di un giudice divino, invocato in un tempo che si vorrebbe riportare ad ogni costo a quella tranquillità e gaiezza che mai sono esistite, se non nella cecità di chi pensa che il male sia semplicemente una fastidiosa zanzara che disturba l’ossessiva, autistica contemplazione di schermi d’ogni foggia e dimensione concepiti per il divertimento infinito – infinite jest – che ci spetta, dopo o al posto del lavoro.

Ora le fragili assi che difendono i loculi in cui molti stanno rinchiusi, “microcosmi autoreferenziali di diritti” ha detto qualcuno, rischiano di cedere, investite dal vento impetuoso del terrorismo fondamentalista. I cittadini soffrono, come i governi, della medesima patologia: irresolutezza e indecisione da una parte e sconsiderata reattività dall’altra, in un andirivieni di comportamenti politici e militari che amplificano il senso di uno spaesato straniamento: Libia, Siria, Russia, Iran eccetera. Un pendolo che oscilla tra entusiasmi prematuri e propositi di guerra stampati a caratteri cubitali su questo o quel giornale, mentre i più poveri tra i senza patria, cristiani e altre minoranze, pagano, loro sì e per davvero, un cospicuo tributo di sangue ai vari aguzzini locali e, bisogna pur dirlo, a quella sorta di collettivo rinnegamento che la cultura e le società occidentali ostentano da tempo nei confronti della cristiana, ingombrante, inopportuna “diceria immortale”.

Quello che non si può eludere
Il senso di un pericolo imminente, che può mettere a repentaglio la vita stessa, rivela l’inattesa conseguenza dell’enfasi dei diritti che ha oscurato la considerazione dei doveri. Ed è il dovere più alto, il dovere stesso della vita e della sua difesa a mostrarsi incredibilmente vulnerabile. Un mondo abituato da tempo a vivere come se la morte non esistesse, o non dovesse esistere, documenta proprio attraverso questa sua imperdonabile ingenuità una sudditanza impotente nei confronti del vigore della morte, dal momento che, come scriveva T. S. Eliot nel secolo scorso, «potete eludere la Vita, ma non la Morte». Anche evocare la tecnica come risoluzione definitiva di ogni bisogno appare una forzatura, almeno nei confronti dell’ineludibile e pressante incombenza del presente.

Lo stesso Eliot descrive con efficace lungimiranza la straziante contraddizione di un’età – la nostra – che «avanza all’indietro, progressivamente».

La casa è pericolosamente instabile, e non basta neppure la prospettiva dell’uso della forza a dare sicurezza, sia perché una pistola in mano a un individuo debole e confuso rappresenta più una minaccia che un aiuto, sia perché è la stessa decisione ad esserci, a vivere, ad essere piccola e paurosamente infantile.

Se fosse davvero, questa, l’età della paura, come attraversarla per uscirne vivi? Il coraggio, uno non se lo può dare, diceva il reverendo Abbondio. Dunque, a chi affidarsi?

Non si tratta solo di cercare un rifugio per la sopravvivenza; con tutto il rispetto per la sopravvivenza, che è attaccamento alla vita, fenomeno naturale, anche se non più così spontaneamente interpretato, di questi tempi. La medicina è potuta progredire per la carità di quegli uomini e di quelle donne che si accostavano ai malati per assisterli, pur sapendo di esporsi al rischio del contagio e, quindi, della morte. Potevano farlo perché credevano in qualcosa di più forte della morte, anche quando, come certi personaggi di Camus, non sapevano bene cosa fosse. Sapevano che non esiste nulla di più importante di un uomo, sapevano che per un singolo uomo vale la pena dare la vita, che in lui c’è qualcosa di sacro, di divino, anche se tutto rimaneva enigmatico. Non si tratta di rifiutarsi di morire, posto che sia possibile. Questo rifiuto, in ultima istanza, è una predilezione: chi non accetta la propria mortalità decide per l’eutanasia, per una delle multiformi possibilità di spegnersi dolcemente, giorno per giorno o di colpo, disponibili oggi sul mercato. La morte viene dal peccato, è scritto; e chi non riconosce il peccato diviene, in qualche modo, servo della morte.

La capitolazione della ragione
La ragione non spinge a misconoscere il proprio male, la propria mortalità; piuttosto spinge a cercare la vita. Come il bimbo impaurito cerca la presenza della mamma. Chiedere la vita coincide con il quaerere Deum descritto da Ratzinger come sintesi di ragione e cultura: «La nostra situazione di oggi, sotto molti aspetti, è diversa da quella che Paolo incontrò ad Atene, ma, pur nella differenza, tuttavia, in molte cose anche assai analoga. Le nostre città non sono più piene di are ed immagini di molteplici divinità. Per molti, Dio è diventato veramente il grande Sconosciuto. Ma come allora dietro le numerose immagini degli dèi era nascosta e presente la domanda circa il Dio ignoto, così anche l’attuale assenza di Dio è tacitamente assillata dalla domanda che riguarda Lui. Quaerere Deum – cercare Dio e lasciarsi trovare da Lui: questo oggi non è meno necessario che in tempi passati. Una cultura meramente positivista che rimuovesse nel campo soggettivo come non scientifica la domanda circa Dio, sarebbe la capitolazione della ragione, la rinuncia alle sue possibilità più alte e quindi un tracollo dell’umanesimo, le cui conseguenze non potrebbero essere che gravi» (Benedetto XVI al Collège des Bernardins, 12 settembre 2008).

Ma, si obietta da parte di molti, è proprio Dio a essere violento e causa di violenza, specialmente quando gli uomini pretendono che sia l’Unico, il Vero Dio. La religione, la religione monoteista in particolare, è causa di violenza. Così, ha scritto qualcuno, occorrerebbe riportare le lancette della storia a prima di Mosè, che ricevendo le tavole dei Comandamenti ha proclamato agli uomini la Parola dell’Unico Vero Dio, dando così inizio alla grande guerra della Verità contro tutte le non verità. Ogni guerra sarebbe, quindi, ultimamente, guerra di religione.

La Bibbia dice che la causa delle guerre non è Dio, ma l’idolatria, la riduzione di Dio. Come ricordava tanti anni fa Jean Guitton in un libro dedicato a Il Cristo dilacerato, «l’intelligenza umana, quando è messa di fronte al mistero essenziale, oscilla da un estremo all’altro: mette Dio, o il Cristo Dio, al di sopra di tutti i mezzi di conoscenza; nello stesso tempo, diminuisce il senso del mistero o l’esigenza morale, quasi volesse sostituire la sintesi e il sacrificio con un misto di intransigenza e di compromesso».

Così, con singolare visione profetica (Guitton scrive queste cose nel 1962), coglie il nocciolo della questione quando afferma: «Chi ci dice che Ario nel ridurre il Cristo al suo aspetto temporale, il quale in confronto all’eternità è un niente, non scegliesse di fatto il Niente? Chi ci dice che certe forme attuali della Negazione esistenzialista o marxista non riproducano una visione teologica immanentista? O che le rivolte, le rivoluzioni basate su una rivendicazione di purezza così frequenti ai nostri giorni, non siano una riedizione della protesta catara? Che una nuova alleanza di tipo ariano tra l’imperialismo e il cristianesimo non si prepari nelle tenebre di questo tempo? Che una nuova Gnosi non sedurrà gli spiriti? Che un nuovo Islam non farà la sua comparsa? Il novero dei temi è limitato, ma la storia è lunga».

Rabbì, dove abiti?
Ciò che produce violenza non è perciò la Verità, di cui l’uomo invece ha bisogno coma l’assetato dell’acqua, ma la sua distorsione. Lo ricordava Benedetto XVI ai suoi allievi: «Non abbiamo la verità, apparteniamo alla Verità».

Quaerere Deum, dunque. Ma perché l’intelligenza non si smarrisca negli abissi delle altezze divine, finendo per cedere alla riduzione di Dio alla propria misura; perché il medico di Camus possa conoscere quale grandezza risplenda sul volto di questo o quell’uomo, la storia registra la persistenza d’una possibilità impensabile: il quaerere Deum si traduce in Dove abiti.

«Gesù allora si voltò e, vedendo che lo seguivano, disse: “Che cercate?”. Gli risposero: “Rabbì (che significa maestro), dove abiti?”. Disse loro: “Venite e vedrete”. Andarono dunque e videro dove abitava e quel giorno si fermarono presso di lui; erano circa le quattro del pomeriggio».

Dove abiti? Dove Vivi? Dove stai di casa? Ci interessa, è il nostro sommo interesse di oggi, perché «là dove non c’è tempio non vi saranno dimore».

Foto Ansa/Ap

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