Come si fa a far passare ogni obiezione all’eugenetica per «opposizione ideologica». Il caso Mangiagalli

Via libera alla diagnosi preimpianto nella clinica milanese? Così le sottili omissioni del Corriere, dei radicali e dell'assessore Mantovani la fanno sembrare una questione banale. Ma non lo è

In fondo è solo un problema di omissioni. Piccole ma importanti, maliziose ma decisive, sottili ma clamorose. Sta tutta nel non-detto la chiave che premette di capire davvero cosa c’è dietro quello che il Corriere della Sera presenta come «lo scontro» in atto alla clinica Mangiagalli di Milano intorno alla possibilità di dare il via libera alla diagnosi preimpianto sugli embrioni concepiti con la fecondazione assistita.

«MORALMENTE DOVEROSO». In sintesi, succede che il 25 marzo i primari della Mangiagalli inviano una lettera ai vertici dell’ospedale per informarli che tutto è pronto per partire con la tecnica, e che è «moralmente doveroso» farlo poiché una sentenza della Corte europea «ha sancito che il divieto della diagnosi preimpianto stabilito dalla Legge 40 lede i princìpi basilari delle libertà umane». Però i vertici in questione, ovvero Giancarlo Cesana e Luigi Macchi, rispettivamente presidente e direttore della Fondazione Policlinico Mangiagalli, prima di approvare la cosa decidono di scrivere alla Regione Lombardia per chiedere come devono comportarsi perché «la procedura può avere possibili implicazioni eugenetiche».

IL SOLITO AVVOCATO RADICALEGGIANTE. Per mesi Cesana e Macchi non ottengono risposta. Finché il 16 settembre il solito “avvocato di una coppia che si è rivolta a un’associazione vicina ai radicali” invia all’ospedale una diffida minacciando di trascinare i responsabili in tribunale se non effettueranno «entro cinque giorni» la diagnosi preimpianto che rientra tra «i diritti fondamentali dei nostri assistiti». A questo punto la notizia arriva al Corriere e parte la polemica. Una polemica piena di omissioni che servono solo a far passare «l’ostinazione» di Cesana e dei «vertici ciellini regionali» (copyright radicali) come «opposizione ideologica alla diagnosi preimpianto» (copyright Simona Ravizza, Corriere della Sera).

DICO-NON-DICO. Il giochino del dico-non-dico è molto semplice, e il quotidiano di via Solferino lo maneggia alla perfezione. Da tre giorni (tre) negli articoli del Corriere le obiezioni dei famigerati «vertici ciellini regionali» sono ridotte a generici «dilemmi etici» e «timori di derive eugenetiche», senza mai spiegare nel merito perché costoro sollevino tali problemi. Invece la diagnosi preimpianto, non a caso fortemente sponsorizzata dai «medici luminari della Mangiagalli», è solo un innocuo «esame degli embrioni» il cui «obiettivo è di evitare che i genitori trasmettano a un bambino malattie genetiche gravi». Su questo il Corriere insiste moltissimo, con leggere variazioni sul tema: una volta parla di «diritto a non trasmettere malattie gravissime ai figli»; un’altra volta arriva a sostenere che «in gioco c’è la possibilità di trasmettere a un bambino malattie genetiche gravi, (…) un rischio che è possibile evitare con la diagnosi preimpianto sugli embrioni»; oppure si limita a scrivere che l’obiettivo è «aiutare le coppie (infertili) portatrici di malattie genetiche». Mentre i radicali si spingono anche oltre. Per loro la diagnosi preimpianto serve alle coppie «per evitare un aborto se portatrici di patologie genetiche».

«UN DIRITTO». Mai una volta, una sola, si prova a spiegare davvero in che cosa consista veramente la diagnosi preimpianto. Che naturalmente non evita nessun rischio a nessun bambino, semplicemente permette di selezionare fra i vari embrioni prodotti con la fecondazione assistita solo quelli sani. E di scartare quelli malati. È «ideologico» evocare «timori di derive eugenetiche»?
Nel dubbio, l’assessore alla Sanità della Lombardia, Mario Mantovani, cincischia. Vistosi tirato in ballo dagli articoli del Corriere, invece di rispondere alla lettera di Cesana e Macchi, ha preferito unirsi al balletto delle omissioni e dichiarare in favore di taccuino che «per le coppie infertili conoscere lo stato di salute dell’embrione mediante indagini cliniche e diagnostiche è un diritto», e che «nel caso specifico l’azienda ospedaliera aveva già tutti gli strumenti giuridici necessari, senza che ci fosse bisogno di interventi da parte della Regione».

APRIAMO ALL’EUGENETICA? Eppure l’interrogativo sollevato da Macchi e Cesana sembra essere sufficientemente chiaro. È vero che i vari giudici europei e italiani hanno ormai smontato la legge 40. È vero che la diagnosi preimpianto non è più vietata in Italia. È vero che la corte di Strasburgo ha stabilito che essa è «un diritto». Ma da quando è legale l’eugenetica, in Italia? Entro quali limiti e secondo quali tecniche e criteri andrebbero scartati gli embrioni malati? «Se la questione fosse stata semplice non ci sarebbe stato bisogno dell’intervento della Corte europea e di una serie di sentenze», ha replicato Cesana a Mantovani sempre tramite il Corriere. «Adesso la Regione ci risponda ufficialmente». Di grazia assessore, si pratica l’eugenetica in Lombardia? E se si pratica, come si pratica?

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