Il collasso dell’Afghanistan costerà caro all’amministrazione Biden

Il crollo del paese sotto i colpi dei talebani è un problema per Biden. Le mosse di Cina, Turchia e Iran. Cosa sta accadendo e cosa accadrà

Milizie afghane a Herat, Afghanistan

La fuga del presidente degli Stati Uniti Joe Biden di fronte ai giornalisti che chiedevano lumi sulla strategia di Washington in Afghanistan e le traballanti dichiarazioni del portavoce del dipartimento di Stato Ned Price sul sostegno al governo di Kabul, sono la sintesi di una serie di errori di valutazione e di visione che potrebbero costare molto cari all’amministrazione Usa e favorire il rivale cinese.

A pochi giorni dal 31 agosto, data che segna il ritiro completo delle Forze armate statunitensi e Nato dall’Afghanistan, i talebani distano a pochi chilometri da Kabul. In meno di una settimana, gli insorti sono riusciti a prendere il controllo di oltre il 65 per cento del Paese, tra cui le città strategiche di Herat, Kunduz e Kandahar isolando di fatto la capitale.

Washington ha già avviato un piano per ridurre il personale civile della propria ambasciata e si prepara ad inviare un contingente di 3.000 uomini per garantire un rimpatrio in sicurezza. Ormai sono sempre più frequenti sui media i paragoni tra la situazione in Afghanistan e il rovinoso ritiro Usa dal Vietnam nel 1975.

Due errori macroscopici

Secondo diversi analisti, gli errori commessi dagli Stati Uniti e dal governo di Ashraf Ghani sono innumerevoli, ma due risaltano più di altri.

Il primo, commesso da Washington, è aver fatto coincidere il ritiro con la “stagione dei combattimenti”, periodo in cui da sempre i talebani, e prima di loro i mujaheddin che combattevano contro i sovietici, concentrano le loro offensive contro le forze governative, alimentando nei militari afghani un senso di smarrimento e tradimento.

Il secondo errore macroscopico è stato invece commesso dal governo di Kabul che, a fronte di quasi 300 mila effettivi e mezzi al pari degli eserciti occidentali, non ha pianificato un adeguato piano per dislocare in modo efficiente le proprie forze e consentire una risposta ad una offensiva da tempo annunciata o quantomeno prevedibile.

I talebani come Hezbollah

A ciò si aggiunge un altro dato rilevante: i talebani di oggi non sono più quelli del Mullah Omar, ma si sono evoluti e per molti aspetti sono divenuti simili allo Stato islamico e ad Hezbollah.

Gli “studenti” coranici, vantano una struttura non più formata da milizie raffazzonate e guidate da leader carismatici, ma reparti simili a quelli degli eserciti regolari organizzati secondo una gerarchia complessa, addestrati all’utilizzo di tattiche di guerra e di attrezzature militari all’avanguardia, constano di nuclei di forze speciali e infine di una strategia asimmetrica di combattimento che si avvale a seconda delle situazione di tattiche propriamente militari o terroristiche.

Una regia esterna?

Non a caso quella compiuta dai talebani da maggio fino ad oggi è stata una manovra pianificata nei minimi dettagli e condotta con tempistiche precise e in più fasi: la conquista dei principali valichi di confine tra maggio e luglio; il successivo taglio delle linee di collegamento lungo la “Ring Road”, l’arteria che collega i principali centri del Paese alla capitale Kabul; il lancio dell’offensiva contro i singoli distretti e i capoluoghi di provincia strategici per isolare il centro del Paese.

Come affermato da vari analisti ed esperti, l’efficacia dell’offensiva potrebbe nascondere una regia esterna – Cina, Pakistan o Iran  ma mancano prove dirette a sostenere queste tesi. Scendendo ad un livello “intermedio” risulta invece evidente come elementi di spicco dello Stato islamico, presente in Afghanistan con il nome di Stato Islamico nel Khorasan (IS-K), possano aver in qualche modo consigliato o attivamente addestrato i reparti talebani, che secondo diverse stime ammontano in totale a circa 85 mila uomini.

Legittimità politica per i talebani

Tuttavia la mera forza militare non è sufficiente a spiegare un’offensiva di una tale efficacia e la resa quasi senza combattere di molti reparti dell’esercito afghano. Come sottolineato al sito informativo afghano Tolo News da Wahid Omar, ex comandante talebano e consigliere del presidente Ashraf Ghani, il lungo periodo trascorso tra l’accordo firmato con Donald Trump a Doha il 29 febbraio 2020 e l’avvio di veri negoziati con il governo ha offerto legittimità politica al gruppo che ora si presenta nei vari distretti forte di accordi stipulati con i Paesi limitrofi, denaro e armi così da spingere i militari isolati e senza rifornimenti alla fuga, alla resa o al cambio di casacca.

«I talebani hanno acquisito una legittimità che non avrebbe dovuto essere data loro come gruppo», ha affermato Omar, il quale ha sottolineato che a fronte di un rilascio dei prigionieri da parte del governo di Kabul gli insorti non hanno in alcun modo fermato i propri attacchi contro l’esercito regolare nel corso del 2020 e del 2021.

Caos e potere

Nei dialoghi in corso in questi giorni a Doha il governo avrebbe offerto una condivisione del potere in cambio di un blocco dell’offensiva, ma l’intenzione dei talebani sarebbe quella di portare alle dimissioni il presidente Ashraf Ghani e prendere il potere, sfruttando il clima di caos che sta interessando l’avversario. La minaccia già lanciata in questi giorni da Usa, Onu ed Europa è che nessun governo guidato dai talebani verrà riconosciuto dalla comunità internazionale, con la conseguente sospensione di investimenti e aiuti, almeno da parte “Occidentale”.

A fronte di questa situazione, la caduta dell’Afghanistan nelle mani dei talebani sarebbe ormai questione di un mese poco più, a meno di un intervento dall’esterno che possa risollevare il morale dell’esercito regolare e ridare legittimità allo stesso Ghani e alla leadership di Kabul.

Le mosse della Cina

Il “fallimento” di Usa e Nato rappresenta inoltre un’opportunità per attori regionali come la Cina e i suoi stretti alleati: Iran e Pakistan. Se il ruolo di Islamabad a protezione dei talebani non è un mistero, al momento non vi è alcuna prova concreta del coinvolgimento diretto della Cina nell’avanzata inarrestabile dei talebani, ma in base a quanto riportato da alcuni media statunitensi, Pechino sta già sfruttando la situazione di caos e sarebbe pronto a riconoscere a sorpresa un eventuale governo guidato dai talebani, rompendo il fronte Onu.

In queste settimane la Cina ha pubblicamente fatto pressioni sui talebani affinché continuino a lavorare per un accordo di pace con il governo Ghani. Tuttavia, le nuove valutazioni militari e di intelligence cinesi sulla situazione sul campo avrebbero spinto i leader del Partito comunista a prepararsi a formalizzare la loro relazione con la rete degli insorti.

A sostegno di questa tesi vi è la visita del 28 luglio di una delegazione dei talebani a Tianjin ricevuta dal ministro degli Esteri Wang Yi, che solo pochi giorni aveva ricevuto nella medesima località il vice segretario di Stato Usa Wendy Sherman. I talebani si sono impegnati a non interferire negli affari interni della Cina e a non consentire l’utilizzo del territorio afghano da parte delle forze anti-cinesi, ovvero gli uiguri dello Xinjiang.

La mediazione di Erdogan

In attesa di un eventuale cambio di strategia da parte degli Stati Uniti, Turchia e Qatar stanno tentando di instaurare un contatto diretto con la leadership talebana. Il 13 agosto, il presidente turco Recep Tayyip Erdogan ha annunciato la sua disponibilità a dialogare con la leadership dei talebani, dicendosi convinto che, qualora non dovesse a stabilire un contatto non sarà possibile raggiungere la pace in Afghanistan.

La Turchia, membro Nato “sui generis” e con un difficile rapporto con le ultime amministrazioni Usa, si era già offerta a maggio di mantenere il proprio contingente militare a difesa dell’aeroporto di Kabul, proprio in virtù di una migliore posizione negoziale con i talebani. Erdogan, ha affermato di essere già al lavoro con l’emiro del Qatar Tamim bin Hamad al Thani – il primo ad elevare i talebani a movimento politico con l’apertura della rappresentanza a Doha nel 2013 – e con il nuovo presidente iraniano Ebrahim Raisi.

Il tornaconto iraniano

L’Iran, ora guidato dai conservatori, potrebbe avere un certo tornaconto, anzitutto in fase di colloqui sul nucleare con Usa e potenze europee, nel porsi come mediatore insieme a Turchia e Qatar, replicando quanto avvenuto in Siria con il formato di Astana insieme ad Ankara e Mosca. Teheran vanta uno strettissimo rapporto con la Cina, ottime relazioni con l’attuale leadership afghana e teme però al pari di Washington un crollo dell’Afghanistan e un futuro governo talebano.

Dopo la caduta di Zaranj, la capitale della provincia di Nimruz, che confina con l’Iran, centinaia di militari afghani hanno cercato rifugio in territorio iraniano e al momento il governo di Teheran sembra non intenzionato a rimpatriare i fuggitivi.

Colloqui Iran – talebani

L’Iran vanta anche un complesso rapporto con i talebani che sono letteralmente odiati dalla popolazione sciita iraniana.

Dopo aver quasi avviato una campagna militare contro i guerriglieri del Mullah Omar nel 1998, in questi 20 anni le amministrazioni iraniane, nonostante le critiche della popolazione, hanno avuto innumerevoli colloqui bilaterali con i rappresentanti dei talebani per evitare attentati lungo i propri confini e contrastare il traffico di droga. Inoltre il 7 luglio Teheran ha ospitato un importante incontro tra rappresentanti del governo di Kabul e i talebani.

La Russia non sta a guardare

In questo quadro complesso la Russia, attore regionale che meglio conosce il dossier Afghanistan, ha risposto sia tramite la diplomazia che rafforzando gli alleati centroasiatici sul piano militare. In luglio una delegazione dei talebani ha visitato Mosca per garantire che l’offensiva in corso non avrebbe minacciato in alcun modo la Russia o i suoi alleati in Asia centrale.

Nonostante la rassicurazioni, dal 3 al 10 agosto Russia, Tagikistan e Uzbekistan hanno organizzato una vasta esercitazione congiunta a 20 chilometri dal confine tagiko con l’Afghanistan che ha impiegato 2.500 soldati russi, tagiki e uzbeki e circa 500 veicoli militari, tra cui i caccia d’attacco al suolo Su-25 i bombardieri a lungo raggio Tu-22M3. Mosca ha anche condotto nello stesso periodo una vasta esercitazione militare congiunta con la Cina nella regione nella regione cinese di Ningxia che ha coinvolto oltre 10.000 militari e centinaia di mezzi terrestri e aerei.

Foto Ansa

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