Cileni “pro Pinochet”? Perché il Cile ha detto no alla nuova Costituzione

Bocciata la proposta del governo perché minava diverse libertà e dava troppo potere allo stato. Ma ora il presidente che piace ai dem italiani ci riproverà

Il presidente cileno Boric durante l’ultimo appello a votare Sì alla nuova Costituzione (foto Ansa)

La nuova costituzione cilena è stata respinta da quasi il 62 per cento dei cileni, i quali non sono “pro Pinochet”, come spiegavano ieri gran parte dei media italiani, ma perché il testo proposto era un disastro. Cominciamo con il dire che il referendum di domenica è stato il voto più importante del Cile da quando il paese è tornato alla democrazia, nel 1989. Avendo perso la sinistra, però, molti commentatori non riescono a spiegare come mai nel 2020 il 78 per cento dei cileni avesse votato a favore della stesura di una nuova costituzione che ora ha bocciato. Una cosa è una nuova Magna Carta migliore di quella di Pinochet, altra la bozza stilata dalla costituente di sinistra, che conteneva un record di castronerie e, per questo, è stata affossata da quasi da due terzi dei 12 milioni andati alle urne, anche questo un record.

Una Costituzione contro la proprietà e lo stato di diritto

Come scriveva qualche giorno fa il Wall Street Journal, anticipando il rifiuto, «una lezione per ogni paese che cerca di costruire una società libera e giusta è che il terrorismo non può produrre unità nazionale. È vero che il Partito Comunista e la sinistra radicale, compresi i suoi rappresentanti nella comunità indigena, hanno ottenuto il controllo dell’assemblea costituente nelle elezioni del maggio 2021. Ma il progetto costituzionale è stato introdotto solo perché militanti, anarchici e criminali stavano bruciando, saccheggiando e vandalizzando il paese in una furia, iniziata nell’ottobre 2019, che il governo non riusciva a contenere».

Nel merito, la bozza respinta minava i diritti di proprietà, la libertà di parola e lo stato di diritto, oltre a espandere a dismisura il ruolo dello stato nell’economia. Persino l’ex presidente Eduardo Frei, un democristiano che in Italia qualche anno fa sarebbe stato definito doroteo e che era favorevole a una nuova Costituzione, già il luglio scorso aveva annunciato che avrebbe votato no. Tra le sue preoccupazioni dichiarate un inadeguato «equilibrio e divisione dei poteri» tale che una maggioranza eletta potrebbe spostare il paese “verso un regime dittatoriale” simile a “quelli nel mondo che stanno diventando frequenti”. Traduzione: fare la fine di Venezuela e Nicaragua, due paesi che hanno cambiato la loro Magna carta negli ultimi tre lustri con i risultati oggi sotto gli occhi di tutti.

Il No al Cile diviso in più nazioni

A preoccupare i cileni anche il fatto che con la nuova costituzione c’era il rischio concreto che i giudici fossero controllati politicamente dall’esecutivo. «L’indipendenza e la non politicizzazione del ramo giudiziario è fondamentale perché sempre più dittature vengono consolidate attraverso la cattura della magistratura», ammoniva qualche giorno fa lo stesso Frei. 

Forse, però, più di ogni altro aspetto della costituzione respinta ieri, a preoccupare era la proposta di istituire un Cile plurinazionale, ovvero la creazione di numerose nazioni all’interno del paese, ognuna con una varietà di sistemi legali che si applicano a diversi gruppi. Una follia che avrebbe significato il caos perché, se fosse passato il Sì la nuova Magna Carta avrebbe diviso il Cile in più nazioni.

Chi grida al ritorno di Pinochet in Cile con il No vincente al referendum, in primis il presidente della Colombia, Gustavo Petro, adducendo che, ad esempio, i diritti degli indigeni cileni sono stati ancora una volta calpestati, mente sapendo di mentire. In un sondaggio condotto all’inizio di quest’anno dal Centro di studi pubblici sui cileni che si identificano come Mapuche, infatti, oltre il 70 per cento si opponeva all’indipendenza della propria comunità e solo la miseria del 12 per cento era favorevole allo stato plurinazionale.

Una sconfitta per Boric, idolo dei progressisti italiani

L’ampio margine di sconfitta ha inferto un colpo duro al presidente Gabriel Boric, il leader cileno più di sinistra dai tempi di Allende e idolo dei progressisti italiani. Lui è l’ex legislatore di 36 anni che forse più aveva contribuito a negoziare l’accordo per la stesura della nuova Costituzione e lo scorso anno aveva promesso ai suoi elettori che «se il Cile è stato la culla del neoliberismo, sarà anche la sua tomba». Ora il sonoro fallimento della sua proposta costituzionale renderà più difficile la sua vita politica anche se ha già detto che non mollerà, perché vuole comunque una nuova costituzione. Per farlo ha già riunito ieri tutti i leader dei partiti alla Moneda per siglare un accordo per una nuova Magna Carta.

Come al Monopoli si torna dalla casella di partenza. Il busillis andrà dunque di nuovo in Parlamento, che dovrà indire altre elezioni per una nuova assemblea costituzionale e ricominciare da capo tutto il processo di redazione per un’altra bozza di Costituzione. Con i tempi un nuovo referendum non si celebrerà prima del 2024 e la domanda sorge spontanea: ma con la violenza e l’inflazione a livelli mai visti prima a Santiago, Boric non ha proprio nulla di meglio da fare?

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