Che cosa unisce l’Inno di Mameli alla battaglia contro il nichilismo abortista

Caro direttore, ho letto con amarezza l’articolo di Pietrangelo Buttafuoco (Tempi 23, numero 30-31, pag. 8) sull’Inno di Mameli, che condivido ed apprezzo per l’iniziativa. Noi italiani, infatti, tendiamo a dimenticare la Storia che può essere scomoda da ricordare. Premesso che non sono né un «monarchico né un acritico lettore della storiografia ufficiale della politica risorgimentale di Casa Savoia e di quella che seguì all’Unità» non posso non pensare con altrettanta amarezza come molto probabilmente siamo anche l’unica Nazione che non celebra come festa nazionale la data (per noi quel 17 marzo 1861) che ne sancisce la nascita. Forse solo perché lo Stato italiano allora Regno d’Italia è ora una Repubblica? Cosa raccontiamo, oltre le frasi di circostanza, ai nostri giovani allievi sul valore della memoria storica per quegli avvenimenti e del rispetto per tutti coloro che in quell’ideale hanno creduto e anche combattuto?
[Roberto Miniero via email]

Carissimo signor Miniero, le sue parole mi trovano d’accordo, peraltro più con lei che con il mio amico Buttafuoco: l’Inno di Mameli non è poi così malaccio come sostiene lui, foss’anche un po’ troppo scontato con quel suo ritmo da piccola marcia marziale (zum papa zum); amerei anzi che si spiegasse alle scolaresche quanto c’è di prezioso nella citazione di Scipione l’Africano del cui elmo l’Italia si cinge la testa, poiché senza Scipio – ma sopra tutto senza l’impareggiabile Fabio Massimo – oggi saremmo tutti cartaginesi e vivremmo come loro: costretti a sacrificare bambini in olocausto su altari mostruosi (tofèt). Il che, del resto, tra aborto e disdicevoli disincentivi alle nascite, sta già avvenendo: da vari secoli l’occidente si sta mostrificando sul modello punico. In Italia faremmo bene a riscoprire il culto solare della Vittoria, celebrare il 24 maggio e il 4 novembre (se non sapete di che date si tratta, siete parte del problema in questione), senza con ciò sentirci guerrafondai. I nostri politici si sciacquano la bocca parlando dei così detti “padri costituenti” del secondo dopoguerra, autentici nani al confronto dei padri antichi e di quelli che riunirono la Patria sotto le insegne romane (sia pure con gli eccessi di cui scrive sul numero 34 di Tempi Alfredo Mantovano). Certo, i Savoia degenerati, il maresciallo Badoglio e il clerico-fascismo hanno largamente contribuito a delegittimare il Primato di Gioberti e il valore di Carlo Alberto, ma in definitiva spetta ancora a noi il compito del discernimento e della riconsacrazione del valor di Patria. La monarchia sta in cielo, dove regna il Padre celeste; noi dovremmo riprodurre per quanto possibile il suo ordine metafisico qui in terra, curandoci delle nostre origini, dei nostri eroi, dei nostri figli presenti e futuri.

La sperimentazione metodologica messa in cantiere dal Miur consistente nella contrazione dei cinque anni delle scuole superiori in soli quattro, non è – come si sente dire – un puro e semplice escamotage per combattere la dispersione scolastica. È invece un progetto didattico ben preciso, il quale possiede due obiettivi. Il primo è quello di adeguare il termine degli studi superiori a quello di molti sistemi scolastici europei, che asseritamente permetterebbero agli studenti stranieri di anticipare l’entrata nel mondo del lavoro rispetto ai nostri, con svantaggio di questi ultimi. Il secondo è quello di snellire i curricoli (quelli che quando non imperava il didattichese si chiamavano programmi) riducendo la mole delle conoscenze a vantaggio (si intuisce) di “competenze” e “abilità”. Si tratta di un progetto che serpeggia da almeno vent’anni nella scuola italiana, e per così dire serpeggia trasversalmente, come fanno certe varietà di vipere particolarmente velenose. Trasversalmente nel senso che è stato sponsorizzato sia dai governi di centrodestra sia da quelli di centrosinistra, che però hanno rinunciato all’impresa di fronte alla valanga di contestazioni rivolte dai sindacati (per l’evidente calo di occupazione che avrebbe prodotto) dalle associazioni dei docenti (che ne mettevano all’indice il conseguente depauperamento culturale) e direttamente dagli insegnanti (per l’uno e l’altro ordine di motivi). Non vorremmo che la calura intorpidente di questo agosto, unita alla trasformazione dei docenti in fellah tentata e in parte riuscita alla “buona scuola”, favorisse oggi la realizzazione di questo perniciosissimo piano, l’ultimo della serie intesa a smantellare quello che resta di buono nella nostra scuola.
[Alfonso Indelicato via email]

Bisogna «tornare a Giovanni Gentile», dicevo qualche settimana fa da queste colonne, prima che i maestri cantori del nichilismo educativo portino a compimento il loro programma di sterminio della conoscenza.

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