Ritroviamo l’unità in politica, al di là delle diverse opinioni

«Non si può dire che la diaspora elettorale abbia pagato come risultato. E questo ci interroga». Lettera dell'assessore lombardo e candidato alle recenti elezioni regionali

Raffaele Cattaneo, assessore lombardo e candidato Noi moderati alle elezioni regionali in Lombardia

Caro direttore, a elezioni regionali concluse e con i risultati ormai definitivamente acquisiti desidero intervenire anche io nel dibattito generato dalla lettera di Peppino Zola su Tempi dello scorso 5 febbraio e dai contributi successivi, in particolare dall’articolo “Elezioni regionali. Appunti per il dopo” a tua firma. Un dibattito che ha a tema l’unità in politica e che anche io ritengo non vada lasciato cadere.

Ho vissuto direttamente dal di dentro ogni giorno dei 18 anni della presidenza di Roberto Formigoni, poi i 5 anni di Roberto Maroni e infine questi ultimi 5 con Attilio Fontana. Ho attraversato fasi diverse: tempi floridi dal punto di vista politico, nei quali tra noi c’era una unità reale e le nostre idee e proposte incontravano il consenso dei più e altri più faticosi in cui il consenso si riduceva e la divisione aumentava. Questo è forse il più complesso di tutti: mai siamo stati così divisi in politica e temo così poco rilevanti.

Mi permetto dunque di condividere innanzitutto tre riflessioni, considerando che nella tornata di elezioni regionali appena concluse in Lombardia, nonostante una ventina di candidati in ogni lista del centrodestra e dello schieramento che sosteneva Letizia Moratti, ne sono stati eletti in Consiglio Regionale solo due, Matteo Forte e Carmelo Ferraro. Dunque non si può certo dire che la diaspora elettorale abbia pagato come risultato. E questo necessariamente ci interroga sul tema dell’unità.

1) L’unità è un dono, anzi un miracolo. Non può essere una pretesa (lo ha ricordato Davide Prosperi nella sua sintesi all’assemblea delle internazionali). È un fatto che si riconosce, quando c’è. E con le nostre forze non riusciamo a costruirla. Eppure, io non smetto di desiderarla! Abbiamo bisogno di ricominciare un lavoro – che difficilmente potrà partire dalla politica, ma avrà bisogno di qualcosa che viene prima della politica – per riscoprire il gusto e il bene dell’unità, sia come segno distintivo (una “comunità sociologicamente identificabile” come diceva don Luigi Giussani, anche in politica), sia come condizione per aumentare la nostra incidenza concreta, sia soprattutto come ricerca instancabile e appassionata di un giudizio comune, da costruire insieme, non da ricevere acriticamente calato dall’alto. Questa passione per l’unità io penso debba venire prima delle pur legittime valutazioni personali e differenze di visioni e opinioni contingenti e debba tradursi in qualcosa di concreto, perlomeno, sono d’accordo, in un lavoro comune da fare dopo le elezioni anche tra chi milita in schieramenti e liste diverse, benché certo questa diversità non sia un elemento favorevole, come hai opportunamente e realisticamente ricordato nel tuo articolo. Non possiamo farci illusioni: per realismo la mia esperienza insegna che un prezzo alle dinamiche di partito e di schieramento si pagherà.

2) La presenza politica, nella mia esperienza, è stata tanto più feconda quanto più figlia di una appartenenza reale. Cioè espressione di una compagnia che insieme valutava e arrivava fino alle decisioni concrete: i contenuti e gli indirizzi delle politiche, la declinazione concreta dei principi (sussidiarietà, libertà di scelta, ecc.) ma anche: “mi candido, non mi candido”, diamo priorità a questo tema o a quello. Non era, non è mai stata, come qualcuno erroneamente pensa, una sorta di “cupola” che sovrastava la politica, ma una appartenenza vera, incarnata dentro la realtà senza sfuggire al confronto con i problemi concreti (politici, sociali, economici, di governo) che la realtà poneva di fronte, capace di un aiuto reale nel giudizio e nella elaborazione di contenuti e criteri. A un certo punto questa esperienza, questa appartenenza si è indebolita e ha lasciato il posto, almeno parzialmente, all’opinione di ciascuno, a ciò che ognuno sentiva più giusto e adeguato, anche con riferimento alle pur legittima prospettive e ambizioni personali e politiche. Qui io ho visto instillarsi il germe della divisione.

3) Si comincia dalla politica ma siamo sicuri che si finisce lì? La politica ha la forza di portare a galla elementi e caratteristiche che in altri aspetti della vita si vedono meno. Ma ci sono lo stesso. Io ho l’impressione che questa divisione tra noi, o almeno questa prevalenza dell’opinione sulla appartenenza, si stia diffondendo anche in tanti altri ambiti. Come diceva un mio grande maestro, se e quando l’esperienza cristiana si distacca da una incarnazione che arriva fino al particolare nella sua concretezza reale e quotidiana, prima o poi si comincia con la politica, si passa alle opere, si arriva al lavoro, ai soldi, alla famiglia, e forse si rischia di finire addirittura con l’interpretazione della fede. Per questo a me la vicenda pare molto più da affrontare sul piano educativo e dell’esperienza che su quello della politica e non può non interessare chi porta la responsabilità educativa.

Qualcuno obietta che la scelta di chi votare e sostenere in politica deve essere libera e l’appartenenza non deve limitare questa libertà. Ho sempre creduto e sostenuto con convinzione che l’esperienza debba essere libera e personale e che l’appartenenza non possa essere a scapito della libertà, ma al contrario liberamente scelta in quanto condizione per una libertà più piena e matura. Non desidero affatto una appartenenza da pecoroni, povera di ragioni e mortificante la libertà. L’obiezione di chi dice che ritornare a una appartenenza reale limiterebbe la libertà, a me sembra coincidere con una visione limitata della libertà: la libertà come opinione, o come fare ciò che si vuole. Ma ognuno di noi sperimenta, come ad esempio avviene nel matrimonio e in famiglia, che la forma più compiuta di libertà è l’appartenenza. Non intendo neppure rinunciare a un confronto sulle ragioni, ma secondo quella dimensione ampia di ragione che don Giussani ci ha sempre richiamato: apertura alla totalità del reale.

Credo infine che la Cdo nel recente incontro al Palalido, così come Comunione e liberazione nel volantino per le recenti elezioni Politiche, abbiano ribadito quali sono i criteri che devono ispirare la politica dei “nostri amici”, riprendendo i temi tipici della dottrina sociale della Chiesa, a cominciare dal principio di sussidiarietà, da cui discende un favor per una maggiore autonomia sociale e locale, e dai principi non negoziabili – o principi imprescindibili – di cui alla Nota Dottrinale sull‘impegno dei cattolici nella vita politica del 2002: il valore sacro della vita dal concepimento alla sua fine naturale, la famiglia naturale da sostenere con politiche familiari reali ed efficaci e la libertà di educazione, in un sistema scolastico autonomo e realmente paritario. A questo aggiungerei una visione cristiana, realista e non ideologica, della sostenibilità. Su questi temi il modello di governo lombardo costruito da Formigoni e mantenuto anche da chi gli è succeduto ha fornito risposte concrete e di forte valore emblematico, dentro una visione davvero sussidiaria del ruolo della Regione, che ha orientato le politiche e l’azione amministrativa, mettendo sullo stesso piano pubblico e privato, attraverso il meccanismo dell’accreditamento e l’attuazione di una reale libertà di scelta del cittadino.

Nella mia esperienza concreta più che gli enunciati teorici scritti nei programmi – che comunque non sono poi così tanto simili – conta la cultura politica di cui ciascun schieramento è portatore, perché questa orienta concretamente le scelte di governo. La coalizione di centrodestra ha dato prova negli anni di poter accogliere le proposte che derivano dalla nostra visione e per questo io ho continuato a stare lì. Sulle scelte politiche però possiamo e dobbiamo confrontarci.

Un tempo si diceva: «In necessariis unitas, in dubiis libertas, in omnibus caritas». Abbiamo bisogno di capire meglio quali sono le cose su cui è necessaria una unità certa e poi dimostrarla nei fatti, quelle su cui si può avere una libera diversità di visione, ma più di tutto abbiamo bisogno di quella carità che nasce dal riconoscimento dell’altro, da quella che don Giussani chiamava una “pre-stima”, che forse fra noi si è un po’ persa e va recuperata in un lavoro comune.

Un caro saluto,

Raffaele Cattaneo

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