“Caso camici”: dopo la gogna tutti assolti. Ho un’idea per fare davvero giustizia

Il presidente della Lombardia Fontana e gli altri imputati non hanno compiuto alcun reato. E se i giornali fossero obbligati a dare la notizia con la stessa enfasi e nello stesso spazio con cui è stato lanciato l’atto d’accusa?

Il “caso camici”, che aveva suscitato tanto scalpore per l’accusa al presidente Fontana di aver favorito il cognato, si è definitivamente concluso con il proscioglimento confermato anche in appello. La II Corte d’Appello di Milano ha respinto il ricorso della Procura della Repubblica contro la sentenza con la quale nel maggio 2022 la giudice dell’udienza preliminare aveva già prosciolto, con la formula piena «perché il fatto non sussiste», il presidente della Regione Lombardia (e gli altri quattro imputati) dal concorso in «frode in pubbliche forniture».

Ho vissuto il “caso camici” in prima persona

Pur non essendo stato indagato, ho vissuto in prima persona le vicende in oggetto e il conseguente can can mediatico. In quel periodo, infatti, avevo ricevuto dal presidente Fontana l’incarico di individuare aziende, prevalentemente tessili, disponibili a riconvertirsi per produrre camici, mascherine ed altri dispositivi di protezione che erano introvabili sul mercato.

Per questa ragione avevo gestito rapporti con la Dama Spa e sono stato anche «ascoltato» a lungo a Palazzo di Giustizia. Di quella giornata mi resta innanzitutto un ricordo: uscendo, scelsi di ritornare a piedi a Palazzo Lombardia, ed è un bel pezzo di strada! Avevo bisogno di togliermi dalla testa quel senso di capziosità percepito durante il “colloquio”. Ciò che mi aveva turbato, era la decontestualizzazione asettica dei fatti in oggetto rispetto alla drammaticità di quei giorni in piena esplosione della pandemia.

Una scelta fatta in un momento drammatico

Gli ospedali chiamavano in Regione perché vivevano ore tragiche: la sera prima non c’erano mascherine né camici, né altri dispositivi di protezione e presidi sanitari per medici e infermieri che sarebbero andati in reparto il giorno successivo. Così, quando tra le prime aziende che si resero disponibili a fornire camici c’era anche la Dama di Andrea Dini, cognato di Fontana, nessuno di noi si pose innanzitutto il problema del potenziale conflitto di interessi, bensì salutammo con favore l’arrivo di un possibile fornitore che non poteva mancare agli impegni. Peraltro, stavamo parlando di un’azienda che l’anno precedente aveva fatturato più di cento milioni di euro e noi discutevamo di una fornitura di circa cinquecento mila euro: non si prospettava certo l’affare del secolo!

Inoltre, un’altra azienda che avevamo accompagnato per prima ad ottenere tutte le certificazioni per riconvertirsi al fine di produrre materiale per la protezione individuale di medici e operatori, dopo tutta la trafila, quando si trattò di consegnare il primo stock ai nostri ospedali decise di vendere tutti i camici ad una clinica privata che pagava tre volte il prezzo concordato con la Regione. Ci trovavamo quindi in una situazione da codice rosso, tragica ed eccezionale. Persino le regole ordinarie di acquisto di bene e servizi (appalti, gare, ecc,) erano state sospese. L’unica nostra preoccupazione era quella di non perdere tempo e di offrire alle nostre strutture in ogni modo possibile il materiale necessario per tutti gli operatori in prima linea, che rischiavano la vita. E invece “per ragioni di giustizia” tutto questo doveva essere messo in secondo piano e avremmo dovuto occuparci delle procedure previste dalle regole amministrative per evitare conflitti di interesse? Come era possibile sostenere questo? Era come punire un soldato al fronte sotto le bombe nemiche perché non aveva mangiato il rancio con forchetta e coltello mettendosi il tovagliolo diritto!

Ideologia e strumentalizzazione politica

Constatare che solo qualche tempo dopo c’era chi aveva dimenticato il clima di emergenza di quei giorni (nei quali stava seduto sul divano, non in prima linea) e voleva vedere a tutti i costi in quella decisione un secondo fine, una finalità addirittura speculativa, non solo mi ha amareggiato umanamente per il cinismo con cui si volevano guardare i fatti e addirittura per la volontà di strumentalizzazione politica, ma ancor più per l’irrazionalità di voler ignorare il contesto in cui avvengono le vicende.

Della correttezza morale del Presidente e di tutto il gruppo di lavoro, non solo non ho mai dubitato ma ritengo ancora oggi giusta la scelta che in quel momento abbiamo fatto. Ricordo anche che in quei giorni dissi al mio gruppo di lavoro che non ci saremmo dovuti aspettare alcun riconoscimento pubblico per quel lavoro in primissima linea che volontariamente avevamo scelto di fare. Era un modo per mettersi al servizio della cosa pubblica in un momento drammatico. Punto e basta. Anzi, puntualizzai che saremmo stati fortunati se non avessimo dovuto affrontare contestazioni. Non tutti siamo stati così fortunati! Certo, un conto è non aspettarsi ringraziamenti, un altro è subire accuse ingiuste e rimanere sulla graticola, con quell’alone di pregiudizio, per più di tre anni.

Giustizia è fatta? No

Ora, se io fossi un ingenuo mi sarei aspettato dai giornali, che in quei giorni di tre anni fa avevano titolato a nove colonne con articoli abbondanti di iperboli e di ricostruzioni fantasiose, una sorta di risarcimento mediatico della stessa misura. La realtà invece, come era ampiamente prevedibile non è andata oltre qualche trafiletto. Così è stato e così avviene abitualmente: dopo essere stati sbattuti in prima pagina per giorni e giorni, quando la giustizia fa il suo corso e le persone vengono assolte, magari anche con formula piena, la notizia non ha mai uno spazio identico a quello iniziale.

Ebbene a tutto questo dobbiamo rassegnarci? Dobbiamo in qualche modo assecondare la tesi per cui, se una notizia di presunta corruzione viene già venduta come una condanna si tratta di inattaccabile diritto di cronaca, mentre se arriva una assoluzione con formula piena limitarsi a un trafiletto deve essere accettato come normale giornalismo perché questo è il sistema “virtuoso” dell’informazione? E che questo debba valere persino per i soggetti coinvolti, dopo aver subito per anni il danno morale di essere considerati “mostri da sbattere in prima pagina”, l’onta pubblica e la denigrazione? A carte ferme, per quei titoli a nove colonne, in cui i giudizi non erano neppure mascherati dal dubbio, chi deve fare un “mea culpa”? A proscioglimento definitivo ottenuto, si può dire che la giustizia abbia restituito piena dignità e risarcito il maltolto a tutte le persone coinvolte? Io credo di no e penso che le persone, abbiano il diritto di essere risarcite quando le loro vite vengono ingiustamente travolte dal “fango” mediatico e dalla strumentalizzazione politica.

Una piccola proposta

Per questo mi permetto di fare una proposta concreta: al netto dell’indubbio diritto di cronaca che permette e richiede di fornire le notizie, i “media” dovrebbero non solo avere il dovere morale di informare della chiusura di una inchiesta, con la medesima enfasi e lo stesso spazio con cui è stato lanciato l’atto d’accusa, ma il dovere legale di farlo.

Affinché questo sia possibile bisognerebbe inserire una piccola norma che obblighi alla “parità di trattamento”, una sorta di par condicio mediatico-giudiziaria. E nessuno parli di limitazione della libertà di stampa, anzi si tratterebbe di una sua degna e nobile riaffermazione, in omaggio alla verità dei fatti. È così impensabile dunque inserire questa piccola norma di civiltà giuridica, magari nella riforma della giustizia?

Foto Ansa

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