La cancel culture esiste eccome. Basta una “tregua” per uscirne?

Il caso degli studenti di Yale che bloccano un convegno non è isolato e spiega bene il clima illiberale delle istituzioni americane. E ora che i conservatori iniziano a reagire, la sinistra si accorge del problema

Attivisti di Black Lives Matter fanno rimuovere una statua del generale General J.E.B. Stuart in Virginia, nel luglio 2020 (foto Ansa)

I duri e puri del «si può dire tutto» e «la cancel culture non esiste» farebbero bene ad aggiornarsi guardando cosa succede da tempo in molte università americane e a leggere le opinion che anche sui giornali storicamente liberal iniziano a definire il problema della limitazione de facto della libertà di parola come molto serio.

La cancel culture nelle facoltà di Legge

Abbiamo raccontato ieri del convegno sulle libertà civili a Yale interrotto dalle proteste di un centinaio di studenti di Giurisprudenza (dunque potenziali futuri giudici o avvocati) che volevano impedire l’intervento di una associazione conservatrice. Non può essere solo frutto della propaganda di destra il fatto che appena il 34 per cento degli americani si senta libero di esprimere le proprie opinioni senza incorrere in conseguenze negative.

Lo scorso 26 gennaio Ilya Shapiro, autore di un libro sulla politica delle nomine giudiziarie in America, ha criticato su Twitter la decisione di Joe Biden di utilizzare i criteri di razza e sesso per scegliere il nuovo giudice della Corte Suprema. Travolto da insulti e critiche, era stato costretto a cancellarlo e scusarsi. Troppo tardi: la Georgetown University, presso cui Shapiro doveva iniziare un lavoro come docente, lo ha sospeso e avviato un’indagine su di lui.

Invitato a parlare della Corte Suprema all’Hastings College of the Law di San Francisco, Shapiro è stato aggredito verbalmente e fisicamente da decine di studenti di Giurisprudenza che hanno impedito lo svolgimento dell’incontro. Gli studenti hanno anche criticato la loro scuola per avere invitato Shapiro chiedendo la costituzione di un comitato formato anche dai loro rappresentanti che approvi di volta in volta i relatori invitati a parlare e una formazione obbligatoria in teoria critica della razza per studenti e docenti. A parte una email del preside del College che sottolinea come «Interrompere un evento per impedire che un oratore venga ascoltato è una violazione delle nostre politiche e norme», nessuno studente verrà punito, ha scritto Shapiro sul Wall Street Journal raccontando l’episodio, così come a Yale.

La proposta di una “tregua” sul Washington Post

Da qualche tempo però si registrano tentativi di reazione al clima illiberale creato dai sostenitori dell’ideologia woke. Per stare al caso di Yale, un giudice di Corte d’Appello, Laurence Silberman, ha suggerito ai colleghi di non assumere nei prossimi anni i protagonisti di quel tentativo illiberale di censura: quanti danni potrebbe fare un giudice, o un avvocato, convinto che sia giusto non lasciare parlare chi ha idee diverse dalle proprie? La lettera di Silberman ha iniziato a preoccupare i progressisti.

Ne ha parlato Megan McArdle sul Washington Post, lanciando un appello per «una tregua sulla cancel culture». L’articolo è notevole perché segnala una nuova consapevolezza a sinistra: fino a che il pensiero e le azioni illiberali colpiscono i “non allineati” all’ideologia woke la cosa non destava preoccupazioni particolari, era anzi liquidata come una fissazione dei bigotti, adesso che iniziano ad esserci reazioni, si invoca la tregua. McArdle dice che bisognerebbe chiedersi quanti degli studenti protagonisti della protesta sarebbero d’accordo a non dare un lavoro a qualcuno con opinioni “sbagliate” su razza e orientamento sessuale (sottinteso: tutti) e dire loro che allora hanno poco da lamentarsi se un giudice suggerisce di fare lo stesso nei loro confronti.

È giusto cancellare i cancellatori?

È giusto cancellare i cancellatori? Il rischio di avvitarsi in un loop infinito di ritorsioni a base di «io posso dire quello che voglio perché è giusto, tu devi tacere» è concreto. “Tregua” più che “diritto”, annota l’editorialista del Washington Post, perché se una delle parti la vìola deve aspettarsi ritorsioni sullo stesso piano. «La sinistra, che oggi ha sostanzialmente il controllo totale sui centri di produzione culturale, è riuscita a convincere i media, il mondo accademico e molte grandi aziende ad adottare una stretta ortodossia progressista. Queste istituzioni non si limitano a sostenere quell’ortodossia, ma la impongono sui dipendenti, i clienti e persino sui governi locali», scrive McArdle.

I conservatori però governano in diversi stati e città, e stanno iniziando a usare il potere politico per resistere all’offensiva culturale della sinistra illiberale. I governi hanno voce in capitolo sui programmi scolastici, ad esempio, possono dare e togliere finanziamenti alle università. Compagni, corriamo ai ripari prima che sia troppo tardi, dice McArdle tra le righe del suo editoriale: se non vogliamo che ci silenzino, conclude, non silenziamoli, ne va dei principi del liberalismo. Fino a che il potere di cancellare era un’esclusiva culturale progressista, i problemi sembravano altri. Meglio tardi che mai, sperando che ormai non sia troppo tardi.

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