Bisanzio fu distrutta in un giorno. La conquista islamica secondo il grande Solov’ëv

Confinata la fede nel tempio e abbandonato l’agone pubblico ai principi pagani, così la Chiesa orientale si condannò a soccombere alla «legge di vita» di Maometto. «Bastarono cinque anni per ridurla ad archeologia»

Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti)

Proponiamo in queste pagine due brani di Vladimir Sergeevic Solov’ëv, teologo e filosofo, da molti considerato il pensatore più importante della storia russa, tratti rispettivamente da La Russia e la Chiesa universale (1889) e dalle pagine conclusive di Maometto. Vita e dottrina religiosa (1896), preceduti dall’introduzione firmata da Adriano Dell’Asta per il numero 1/2002 de La Nuova Europa, rivista internazionale della Fondazione Russia Cristiana.

I due testi di Solov’ëv che vengono qui presentati appartengono agli ultimi anni della sua produzione (…). Non molto distanti temporalmente, sono, per un certo verso, complementari in quanto il secondo chiarisce in che cosa consista, positivamente, quella «essenza religiosa dello spirito orientale» di cui si parla nel primo.

Nella sua biografia di Maometto, Solov’ëv insiste su questa positività ricordando che per l’Arabia del tempo l’islam rappresentò comunque il superamento di un paganesimo rozzo e crudele, che si macchiava regolarmente di sacrifici umani e che venne allora sostituito da una fede capace di fondare diversi e più solidali rapporti tra gli uomini. Un nuovo Dio più degno cui rivolgere le proprie preghiere e una nuova unità tra gli uomini, dunque. Ma questo, agli occhi di Solov’ëv, non basta, occorre qualcosa di più essenziale, capace di liberare l’umano dai suoi limiti e di garantirgli un autentico progresso, qualcosa che l’uomo stesso non può darsi, come dimostrano i peccati in cui cadono persino quelli che sono considerati gli uomini più grandi sia da un punto di vista morale sia da un punto di vista religioso: è il caso di campioni della cristianità come Costantino e Carlo Magno che, per le loro sole virtù, non risultano certo migliori di Maometto.

Questo cuore essenziale che l’uomo non può darsi da solo è anche ciò che costituisce il nucleo comune dei due testi: la divinoumanità di Cristo, alla cui luce si può cogliere sia la grandezza dell’islam, sia il suo limite, l’essere una religione nella quale la creatura è privata di qualsiasi libertà di fronte a un creatore che non le chiede altro se non un atto di devozione cieca.

È una dialettica, quella di Solov’ëv che proprio perché centrata su un Cristo reale, vero Dio e vero uomo, non prodotto dall’uomo né dominatore dell’uomo, gli consente di pronunciare verità sgradite e dure senza schiacciare l’altro; così il giudizio sull’islam è assolutamente al fuori di ogni prudenza diplomatica, ma nello stesso tempo è assolutamente al di fuori di ogni pretesa di una presunta superiorità gelosa e violenta: ciò in base a cui si condanna e si denuncia l’indigenza dell’islam non è un proprio privilegio esclusivo ma è esattamente quello che giudica anche gli stessi cristiani.

Se Solov’ëv cristiano condanna l’antiumanesimo di Maometto, non lo fa dall’alto del proprio particolarismo culturale, razziale o religioso ma in nome di una pienezza – quella di Cristo – di fronte alla quale tutti, in primo luogo i cristiani, sono chiamati a convertirsi. Nessun senso di superiorità, ma neppure nessun indifferentismo, nessun finto dialogo, in una sorta di disinteresse per la verità che finisce per non far incontrare mai due posizioni autenticamente diverse e anzi le costringe a diventare delle maschere che rinunciano in partenza alle proprie identità: quello che Solov’ëv rende possibile con la sua dialettica divinoumana è invece la possibilità di un dialogo autentico in un comune cammino di conversione, dove il rimprovero fatto all’altro muove innanzitutto dalla denuncia dei propri peccati e dove l’affermazione della verità non è mai per il proprio vanto ma per l’arricchimento reciproco e per la stessa salvaguardia della verità altrui che, abbandonata a se stessa, diventa sterile e si chiude in un meschino autocompiacimento.

Adriano Dell’Asta

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Da V. Solov’ëv, La Russia e la Chiesa universale

L’islam è il bizantinismo coerente e sincero, liberato da ogni contraddizione interiore. È una reazione piena e completa dello spirito orientale contro il cristianesimo, è un sistema nel quale il dogma è intimamente legato alle leggi della vita, nel quale la credenza individuale è in perfetto accordo con lo stato sociale e politico.

Già sappiamo che il movimento anticristiano, che si era manifestato nelle eresie imperiali, era culminato nel VII e nell’VIII secolo in due dottrine, l’una delle quali (quella dei monoteliti) negava indirettamente la libertà umana, mentre l’altra (quella degli iconoclasti) rifiutava implicitamente la fenomenalità divina. L’affermazione diretta ed esplicita di questi due errori costituì l’essenza religiosa dell’islam, che vede nell’uomo una forma finita senza alcuna libertà e in Dio una libertà infinita senza alcuna forma. Una volta che Dio e l’uomo siano stati così fissati ai due poli dell’esistenza, non vi è più alcun nesso fra loro, e ogni realizzazione discendente del divino al pari di ogni spiritualizzazione ascendente dell’umano resta del tutto esclusa; e la religione si riduce a un rapporto puramente esteriore tra il creatore onnipotente e la creatura che è privata di qualsiasi libertà e non deve altro al suo signore se non un semplice atto di devozione cieca (è questo il senso del termine arabo islam). Questo atto di devozione, espresso in una breve formula di preghiera che si deve ripetere immutabilmente ogni giorno a ore fisse, è tutta l’essenza religiosa dello spirito orientale che ha detto la sua ultima parola per bocca di Maometto.

A questa semplicità dell’idea religiosa corrisponde una concezione non meno semplice del problema sociale e politico: l’uomo e l’umanità non sono chiamati a realizzare alcun progresso essenziale; non si dà rigenerazione morale per l’individuo e a maggior ragione per la società; tutto è abbassato al livello dell’esistenza puramente naturale; l’ideale è ridotto a una misura che gli garantisce una realizzazione immediata. La società musulmana non poteva avere altro scopo se non l’espansione della sua forza materiale e il godimento dei beni della terra. Tutto il compito dello Stato musulmano, compito che gli sarebbe ben difficile non adempiere con successo, consiste nel diffondere l’islam con le armi e nel governare i fedeli con un potere assoluto e secondo le regole di una giustizia elementare fissate nel Corano.

Nonostante l’inclinazione alla menzogna verbale, tipica di tutti gli orientali come individui, il perfetto accordo tra le credenze e le istituzioni dà a tutta la vita musulmana un carattere di verità e di onestà che il mondo cristiano non è mai riuscito a raggiungere. La cristianità nel suo insieme è senz’altro in via di progresso e di trasformazione; e l’altezza stessa del suo ideale non ci consente di giudicarla definitivamente sulla base dei suoi diversi stati passati e attuali. Ma il bizantinismo, che è stato ostile per principio al progresso cristiano, che ha voluto ridurre tutta la religione a un fatto compiuto, a una formula dogmatica e a una cerimonia liturgica – questo anticristianesimo nascosto sotto una maschera ortodossa – ha dovuto soccombere nella sua impotenza morale di fronte all’anticristianesimo aperto e onesto dell’islam. È curioso constatare come la nuova religione, con il suo dogma fatalista, sia apparsa proprio nel momento in cui l’imperatore Eraclio inventava l’eresia monotelita, quella cioè dietro la quale si celava la negazione della libertà e dell’energia umana. Con questo artificio si voleva consolidare la religione ufficiale, e ricondurre all’unità l’Egitto e l’Asia. Ma l’Egitto e l’Asia preferirono l’affermazione araba all’espediente bizantino.

Se non si tenesse in conto il lungo lavorio anticristiano del Basso Impero, non vi sarebbe nulla di più sorprendente della facilità e della rapidità che caratterizzarono la conquista musulmana. Cinque anni furono sufficienti per ridurre a un’esistenza archeologica tre grandi patriarcati della Chiesa orientale. Il fatto è che non vi erano conversioni da compiere, ma solo un vecchio velo da strappare. La storia ha giudicato e condannato il Basso Impero. Esso non solo non ha saputo compiere la propria missione – fondare lo Stato cristiano – ma si è attivamente adoperato per far fallire l’opera storica di Gesù Cristo. Non essendo riuscito a falsare il dogma ortodosso, lo ha ridotto a una lettera morta; ha voluto minare alla base l’edificio della pace cristiana attaccando il governo centrale della Chiesa universale; e nella vita pubblica ha sostituito la legge del Vangelo con le tradizioni dello Stato pagano.

I bizantini hanno creduto che, per essere veramente cristiani, fosse sufficiente conservare i dogmi e i riti sacri dell’ortodossia senza preoccuparsi di cristianizzare la vita sociale e politica; hanno creduto che fosse cosa lecita e degna di lode confinare il cristianesimo nel tempio e abbandonare l’agone pubblico ai principi pagani. Non poterono certo lagnarsi del loro destino. Hanno avuto quello che volevano: hanno conservato il dogma e il rito e solo la potenza sociale e politica è caduta in mano ai musulmani, eredi legittimi del paganesimo.

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Da V. Solov’ëv, Maometto. Vita e dottrina religiosa, capitolo XVIII, “La morte di Muhammad. Valutazione del suo carattere morale”

Gli storici, anche quelli più favorevoli a Muhammad, gli rimproverano comunque il fatto di aver continuato anche nel secondo periodo della sua attività, quello di Medina – periodo essenzialmente politico – a presentarsi come inviato di Dio e a presentare certe sue disposizioni e certi suoi ordini come prescrizioni dirette della volontà di Dio. Ma questo rimprovero ha senso solo se si presuppone che in questo secondo periodo della sua vita Muhammad non credesse più di essere inviato da Dio e si presentasse solo come tale. Ma quando mai avrebbe cessato di credere nella propria vocazione? Un simile momento non lo si può individuare in nessuna fase della sua vita, e men che meno lo si può cercare proprio nel secondo periodo, quello di Medina.

Se in un primo tempo, quando a conferma della realtà della propria vocazione non aveva nulla oltre alla propria certezza interiore e alla fede in lui di Cadigia e di qualche amico, se anche allora, nonostante ogni evidenza esteriore e a dispetto dell’opinione comune, era rimasto fermo nella propria convinzione, perché mai avrebbe dovuto dubitarne, esattamente nel momento in cui, dopo aver ottenuto dei successi incredibilmente rapidi, aveva cominciato a essere riconosciuto persino da quelli che erano stati i suoi principali nemici e persecutori di un tempo? Quando sarebbe stato, in effetti, questo famoso momento in cui Muhammad avrebbe cessato di credere in se stesso e nella propria vocazione? Quando degli stranieri gli giurarono fedeltà? O quando delle potenti tribù, che avevano il controllo della seconda città dell’Arabia, cominciarono a stipulare dei patti proprio con lui, che era un esule fuggiasco, come se fosse invece un signore indipendente? O quando sconfisse a Badr i coreisciti che erano tre volte più forti di lui? O a Uhud, quando i suoi compagni, con la loro disobbedienza, si autocondannarono alla sconfitta e lui, invece, non soltanto si salvò, ma riuscì anche a conservare e addirittura a migliorare la propria posizione? O quando le forze riunite di tutti i suoi nemici si dispersero davanti a un fossato scavato in tutta fretta, e senza essere riuscite ad arrecargli il benché minimo danno? O quando i coreisciti e tutta la Mecca e, al loro seguito, anche quasi tutta l’Arabia lo riconobbero come loro signore supremo e come inviato di Dio?

È chiaro che ciascuno di questi successi, singolarmente preso, poté soltanto rafforzare la sua fede in se stesso e nel compito che aveva ricevuto dall’alto, mentre tutta la serie di questi successi portentosi, presa nel suo complesso, dovette necessariamente portare questa fede a un livello di assoluta incrollabilità. E come avrebbe potuto, allora, in una situazione simile, tracciare un netto confine tra il proprio arbitrio e la volontà di Dio? E se egli «aveva dato tutto il suo cuore a Dio», e Dio gli aveva dato in cambio la propria incrollabile benevolenza, quale motivo avrebbe mai potuto avere per cominciare a negare una sanzione religiosa proprio ai moti di questo cuore consacrato a Dio? V’era qui, evidentemente, un unico confine, che Muhammad aveva riconosciuto in linea di principio e aveva poi talvolta violato nei fatti. Egli sapeva che la differenza tra il bene e il male non dipende assolutamente dall’arbitrio di chicchessia, e che persino Dio non può comandare il male. E in quei momenti, rari a dire il vero, in cui si vendicò dei propri nemici personali o in cui confuse la saggezza politica con una bassa crudeltà (come accadde nei confronti degli ebrei) non v’è dubbio che la coscienza gli disse che questo è male e che Dio non può ordinare tutto ciò.

Ricorderò ora che anche per questi comportamenti si possono indicare delle circostanze attenuanti, benché non vi sia dubbio che essi meritino una netta condanna. E tuttavia non si può estendere questa condanna a certe prescrizioni del Corano, nelle quali non v’era nulla di moralmente cattivo, anche se a noi appaiono come il frutto di una politica umana, mentre Muhammad attribuiva loro il valore di comandamenti divini. Non si deve dimenticare che la politica di Muhammad fu apertamente religiosa, mentre la sua religione ebbe sin dall’inizio anche un fine politico. Ma dove esisteva a quei tempi (e anche molto più tardi) una chiara capacità di distinguere la religione dalla politica? Forse che non venivano confusi questi due interessi anche nell’attività degli imperatori bizantini, e nell’attività dei papi romani? Ancor meno possibile era, questa differenziazione, in una situazione barbarica della vita sociale quale era quella in cui si trovavano allora le tribù arabe.

Muhammad non fu un politico secolare nel periodo di Medina, esattamente come non fu un teologo mistico all’epoca della sua prima predicazione. La differenza tra i due periodi non dipendeva dall’essenza delle cose ma solo dai metodi di azione, non dipendeva dall’essenza e dal carattere dello scopo ma solo dal suo livello di realizzazione. In un primo tempo Muhammad convinceva senza successo, poi cominciò a vincere con successo tutti i suoi nemici, ma nell’uno e nell’altro caso agì sempre in nome della stessa e identica legge di vita. Per questa legge di vita, e non per chissà quali dogmi astratti, si entusiasmava nella sua prima predicazione, e questa stessa legge di vita, l’interesse per la sua affermazione e la sua diffusione, e non chissà quali vantaggi o calcoli mondani ed esteriori, lo guidò nelle sue spedizioni e nelle sue guerre.

Le Sure legislative del Corano del periodo di Medina sono soltanto applicazioni particolari, pratiche, di quella stessa legge di vita che egli aveva predicato da un punto di vista di principio ai coreisciti, e se la legge stessa, per suo sincero convincimento, non veniva da lui ma dall’alto, era ovvio che la stessa sanzione religiosa si estendesse, in maniera del tutto naturale e senza alcuna falsificazione da parte sua, anche alle applicazioni particolari del principio generale, ai singoli atti legislativi che realizzavano l’unica legge di vita, e Muhammad sarebbe colpevole di aver abusato della propria autorità religiosa solo nel caso in cui uno dei suoi atti legislativi fosse indubbiamente immorale. Ma un’eventualità simile non si verifica nel Corano, anche se molte cose qui, come nella legge di Mosè, sono date “per la durezza di cuore” del popolo.

L’accusa principale che viene addotta contro il Corano è quella di legalizzare la poligamia. Ma anche questa accusa non può essere accettata senza riserve. Legalizzando certe richieste, il Corano non le santifica, come avveniva invece nel paganesimo, non le innalza al livello di un diritto assoluto, ma le inserisce all’interno di ben determinati limiti (non più di quattro mogli). Si può ritenere che questi limiti siano troppo ampi e facilmente aggirabili (distinguendo, ad esempio, le schiave dalle mogli; esattamente come fecero i cattivi musulmani quando cominciarono a eludere il comandamento della sobrietà con la scusa che la vodka è ben diversa dal vino d’uva); ma anche qui, in ogni caso, c’è una limitazione di principio del dominio dei sensi, al posto della sua precedente santificazione. Quando elude questi limiti, Muhammad riconosce che si tratta di una debolezza e invoca l’infinita misericordia di Dio.

Sulla base dei testi del Corano citati, abbiamo visto quanto siano ingiuste anche le altre accuse rivolte a Muhammad, le accuse di fanatismo, di intolleranza, di predicare la violenza in nome della religione. Parlando in generale, nel libro sacro dei musulmani non c’è una sola sentenza nella quale si potrebbe ravvisare una cosciente strumentalizzazione della religione da parte di Muhammad. Se si prescinde da questa fondamentale accusa di principio, contro Muhammad restano soltanto le passioni dei sensi cui cedette nella vecchiaia e un certo numero di omicidi politici, ispiratigli dallo spirito di vendetta. Delle prime abbiamo già detto, mentre per dare un giudizio obiettivo sui secondi bisogna mettere a confronto Muhammad con altri uomini che si siano trovati in una situazione analoga. E qui viene naturale il confronto con Costantino il Grande e Carlo Magno. Entrambi, al pari di Muhammad, agirono in ambito politico-religioso. Tutti e tre legarono la propria politica alla religione, in nome di Dio emanarono leggi e fecero guerre, tutti e tre intesero la religione come un principio pratico, come la base per un’unificazione politico-sociale dell’umanità, tutti e tre si fecero portavoce di ben determinati ideali teocratici, e ciascuno di loro lasciò dietro di sé una certa organizzazione teocratica. Per le loro qualità personali, tutti e tre furono uomini sinceramente religiosi, onesti e liberi da vizi indecorosi. Ma queste qualità personali non preservarono nessuno dei tre dalla tentazione di abusare del potere illimitato che gli era toccato in sorte.

Costantino il Grande mette a morte la propria moglie e il proprio figlio innocente; Carlo Magno fa massacrare quattromilacinquecento prigionieri sassoni. Questi delitti sono già di per sé più gravi dei delitti di Muhammad, ma non bisogna poi dimenticare che Carlo Magno apparteneva a un popolo che già da trecento anni si era convertito al cristianesimo e veniva educato in questa religione, mentre Costantino il Grande si era lui stesso convertito al cristianesimo e, in più, viveva in un mondo incomparabilmente più civilizzato dell’ambiente culturale in cui viveva Muhammad. La comparazione di quest’ultimo con gli eroi politico-religiosi dell’Oriente e dell’Occidente del mondo cristiano va a tutto vantaggio, in questo senso, del profeta arabo; e se i greci hanno canonizzato Costantino e i latini Carlo, tante più ragioni hanno i musulmani per venerare devotamente la memoria del loro apostolo.

Per la caratterizzazione personale e per la valutazione di un personaggio storico è importante non solo quello che ha fatto, ma anche quello che avrebbe voluto fare e quello che lui stesso apprezzava nella propria opera. E in una delle ultime Sure (in ordine di tempo) del Corano, la terza, è proprio Muhammad a dirci come lui stesso considerasse il proprio compito: «Accogliete integralmente la religione divina; non dividetevi tra di voi. Ricordatevi i benefici di cui il cielo vi ha colmato. Eravate nemici tra di voi ed egli ha messo la concordia nei vostri cuori e voi siete diventati fratelli. Rendete grazie alla sua bontà […] affinché, uniti da sacri vincoli, possiate chiamare gli uomini alla vera fede, prescrivere la giustizia, proibire l’iniquità ed essere colmati di ogni bene».

Conclusione
Nel tradizionale racconto del viaggio notturno di Muhammad a Gerusalemme, si narra tra l’altro di come nella “casa dell’adorazione”, dopo la preghiera, vennero presentate al profeta tre coppe: una con dell’idromele, la seconda con del vino e la terza con del latte, e lui delle tre scelse l’ultima. Tra la sensualità pagana (l’idromele) e la spiritualità cristiana (il vino), l’islam è in effetti il salutare e sobrio latte: con i suoi dogmi alla portata di tutti e con i suoi comandamenti facilmente realizzabili esso alimenta popoli che sono stati chiamati a un’azione storica ma che non si sono ancora innalzati ai supremi ideali dell’umanità. Per gli arabi e per gli altri popoli che accolsero la religione di Muhammad, essa doveva diventare quello che era stata la legge per gli ebrei e la filosofia per i greci: un gradino di passaggio dal naturalismo pagano a una autentica cultura universale, una scuola di spiritualismo e di teismo in una forma pedagogica iniziale accessibile a questi popoli.

Il limite fondamentale nella concezione del mondo di Muhammad e nella religione da lui fondata è l’assenza dell’ideale della perfezione umana o della perfetta unione dell’uomo con Dio: l’ideale dell’autentica divinoumanità. Il musulmanesimo non esige dal credente un infinito perfezionamento, ma solo un atto di assoluta sottomissione a Dio. È evidente che anche dal punto di vista cristiano, senza un simile atto è impossibile per l’uomo raggiungere la perfezione; ma di per sé questo atto di sottomissione non costituisce ancora la perfezione. E invece la fede di Muhammad pone la prima condizione di una autentica vita spirituale al posto di questa vita stessa. L’islam non dice agli uomini: siate perfetti come lo è il Padre vostro che sta nei cieli, cioè perfetti in tutto; esso richiede loro soltanto una generale sottomissione a Dio e l’osservanza nella propria vita naturale di quei limiti esteriori che sono stati stabiliti dai comandamenti divini. La religione resta soltanto il fondamento incrollabile e la cornice sempre identica dell’esistenza umana e non diventa mai invece il suo contenuto interiore, il suo senso e il suo fine.

Se non v’è un ideale perfetto che l’uomo e l’umanità devono realizzare nella loro vita con le proprie forze, questo significa che per queste forze non v’è alcun compito preciso, e se non c’è un compito o un fine da raggiungere, è evidente che non può esservi un movimento in avanti. È questo il motivo autentico per cui l’idea di progresso e il suo fatto stesso restano estranei ai popoli musulmani. La loro cultura conserva un carattere particolare puramente locale e presto sfiorisce senza lasciare alcuno sviluppo successivo.

Il mondo dell’islam non ha generato geni universali, non ha dato e non può dare all’umanità “delle guide sulla via della perfezione”. Ciononostante la religione di Muhammad ha ancora un futuro, essa dovrà ancora, se non già svilupparsi, per lo meno diffondersi. I continui successi dell’islam presso popoli poco ricettivi nei confronti del cristianesimo – in India, in Cina e nell’Africa centrale – mostrano che il latte spirituale del Corano è ancora necessario all’umanità.

Foto Santa Sofia: Ansa

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