«Basilicata e Adriatico sono un piccolo Kuwait italiano, ma l’estremismo ambientalista non vuole saperne nulla»

«Non è solo con l'agricoltura e il turismo che il Paese può tornare a crescere. Occorre sfruttare i giacimenti di petrolio e gas del Mezzogiorno per rilanciare l'industria e la meccanica italiane». Intervista a Federico Pirro (Università di Bari)

«Il pregiudizio ambientalista sta gettando alle ortiche la pur vitale manifattura del Mezzogiorno». Così Federico Pirro, docente di Storia dell’industria all’Università di Bari e membro del Centro studi Confindustria Puglia, ha commentato sul Foglio i ritardi dovuti alle proteste degli ambientalisti nella realizzazione di importanti infrastrutture e opere di bonifica e messa in sicurezza ambientale. Come, per esempio, sta avvenendo con il carbone “pulito” della Puglia e i campi petroliferi della Basilicata, che potrebbero dare al Paese molto più di quello che valgono oggi. Ritardi che, racconta Pirro a tempi.it, «costano al Paese decine di miliardi di euro in termini di minore sviluppo e mancata occupazione». Motivo per cui, secondo Pirro, «l’estremismo ambientalista dev’essere sconfitto, nel pieno rispetto delle leggi in materia di bonifica degli impianti, ma anche con una martellante battaglia politico-culturale che segnali all’opinione pubblica nazionale e a quelle locali il pericolo di un anti-industrialismo ormai sempre più cieco e aggressivo».

Professore, a cosa pensa quando parla di «pregiudizio ambientalista» e «anti-industrialismo cieco e aggressivo»?
Penso, per esempio, a Brindisi – polo chimico, energetico ed aeronautico di rilievo nazionale – dove i movimenti ambientalisti locali da anni combattono una quotidiana e durissima battaglia contro l’uso del carbone “pulito”, cioè a basso contenuto di zolfo nella grande centrale dell’Enel da 2.640 megawatt, in cui lavorano 500 addetti diretti ed oltre 700 nell’indotto. Una centrale dove sono già stati realizzati, nel corso degli anni, massicci investimenti di ambientalizzazione e dove ora la società sta costruendo anche la copertura del carbonile. Ma, nonostante ciò, il “Comitato No al carbone” persiste nel chiederne una volta la conversione a metano – ciò significa che la centrale non avrebbe bisogno di più di 50 addetti – e un’altra la completa dismissione. Sempre a Brindisi, poi, ci si sta opponendo con eguale durezza alla riaccensione della centrale dell’Edipower (300 addetti fra diretti e indotto) che vorrebbe usare come combustibile additivo del carbone un prodotto ottenuto con un nuovo brevetto dal trattamento dei rifiuti: l’impianto e il suo esercizio sono già stati oggetto di valutazione ambientale e di successiva autorizzazione da parte del ministero dell’Ambiente, ma su questo piano l’estremismo ecologista non vuole neppure discutere. Mi domando perché… I livelli di inquinamento industriale a Brindisi, infatti, sono elevati, è vero, anche se in buona misura ormai monitorati da Arpa, ma gli impianti in esercizio nella centrale hanno ricevuto tutti l’Autorizzazione integrata ambientale (Aia) e sono oggetto di interventi di mitigazione ai sensi delle normative vigenti. Certamente gli impianti possono sempre essere migliorati, ma nell’ambito delle procedure e dei tempi previsti dalle leggi in vigore. Gli ambientalisti, invece, vorrebbero solo la dismissione dei siti industriali, perché ritenuti sostanzialmente non migliorabili tecnologicamente.
A Taranto, inoltre, si è riusciti ad impedire in tutti i modi il raddoppio della raffineria dell’Eni, la riconversione a metano della sua centrale oggi ancora ad olio combustibile, il nuovo investimento della Cementir di ammodernamento del suo sito, che utilizzava le loppe del Siderurgico per produrre cemento di altoforno, e si vuole, da ultimo, impedire la realizzazione di nuovi serbatoi per stoccare il petrolio da estrarsi in Basilicata e da portarsi a Taranto per essere esportato.

Che cosa frena lo sfruttamento dei campi petroliferi della Basilicata?
In realtà, quei campi hanno dato molto alla Basilicata, sia in termini di investimenti sia di occupazione (circa tremila addetti fra occupati diretti e indotto). E non ci solo i campi dell’Eni in Val d’Agri, ma anche i campi della Total a Corleto Perticara, sempre nella stessa regione, che non sono ancora in produzione, ma per ora solo in corso di allestimento. La produzione e l’indotto, però, avrebbero potuto essere addirittura maggiori, se solo fossero state date per tempo tutte le autorizzazioni richieste dall’Eni alla Regione, come prevedevano accordi già sottoscritti. La Basilicata, infatti, è un piccolo Kuwait italiano. Ma per i timori di inquinamento, la concessione delle autorizzazioni è finora sempre stata frenata. Ovviamente, l’inquinamento è da contenere, nessuno dice il contrario, ma occorre farlo nel pieno rispetto delle normative vigenti e con l’impiego delle best practice estrattive e di raffinazione, che, peraltro, sono già disponibili e impiegabili.

Si tratta di casi isolati, storie diverse tra di loro, oppure c’è un’origine comune?
No, non sono affatto casi isolati: magari non sono ancora coordinati fra di loro e non sembra esservi un’unica regia, ma le notizie quotidiane sui media delle vicende dell’Ilva hanno funto da detonatore e da potente acceleratore di un possibile futuro raccordo fra gli ecologisti di Brindisi, Taranto e della Basilicata. La radice culturale, del resto, è comune: l’industria di processo – petrolchimica, energia, siderurgia – è, infatti, vista dagli ambientalisti come altamente inquinante, e le risposte date sinora dalle Autorità competenti per contrastare l’inquinamento sono state ritenute parziali, deboli, insufficienti. Bisognerebbe – dicono sempre molti ambientalisti, anche se non tutti, avendo Lega Ambiente, per esempio, una posizione più equilibrata – avviare un gigantesco processo di “destrutturazione” manifatturiera per sostituire quegli impianti con altre attività produttive ritenute più pulite, ovvero agricoltura, turismo, artigianato, terziario avanzato. Tutto utile per la crescita, intendiamoci, e già in parte a regime nel Salento, ma non si può prescindere dalle grandi industrie, da rendere, ovviamente, sempre più ecosostenibili.

Anche i giacimenti di petrolio nell’Adriatico potrebbero rappresentare un’importante risorsa per il Paese?
Assolutamente sì. Si stima che in Italia vi siano, anche grazie ai giacimenti dell’Adriatico riserve petrolifere e di gas che potrebbero far risparmiare al Paese 50 miliardi di euro di importazioni in 25 anni e far incassare allo Stato 25 miliardi di introiti fiscali nello stesso periodo. Senza contare che si creerebbe, così, un grande indotto navalmeccanico ed elettromeccanico per costruire le piattaforme, sul modello di ciò che è accaduto nei porti di Ravenna in Romagna e di Ortona a mare in Abruzzo negli ultimi 20 anni. Oltretutto, non dimentichiamoci che il gas già si estrae al largo della Romagna da 30 anni e il petrolio dal 1998 al largo di Brindisi.

Che cosa ostacola la costruzione del rigassificatore di Enel a Porto Empedocle in Sicilia?
I tempi per le autorizzazioni alla costruzione del manufatto sono stati lunghissimi perché si accampavano, fra l’altro, da parte del Comune di Agrigento presunte interferenze visive con la vicina Valle dei Templi. Peccato, però, che il rigassificatore era destinato, in realtà, ad essere interrato. Successivamente sono intervenute ulteriori difficoltà autorizzative – mi si dice da fonte Enel al momento non ancora definitivamente superate – per il raccordo fra il terminal di rigassificazione e la rete Snam. I rischi dell’opera sono stati accuratamente valutati, secondo le norme vigenti, nelle istanze e con le procedure a ciò preposte del ministero dell’Ambiente, cui partecipano anche gli Enti locali. Ad oggi, dunque, è fermo un investimento pari ad oltre 800 milioni di euro per circa 1.000 occupati, nell’arco di quattro anni, fra costruzione diretta e attività dell’indotto.

Quale futuro intravede per l’Ilva di Taranto?
La situazione dell’Ilva è drammatica e presenta diversi aspetti di complessità di natura giuridica, giudiziaria, finanziaria, impiantistica, sociale ed ambientale. L’auspicio è che questa fabbrica – che con i suoi 11.514 addetti diretti è la più grande manifatturiera d’Italia, ma pochi lo sanno – riesca a salvarsi anche dagli attacchi ormai sistematici di chi ne vorrebbe la dismissione. Senza pensare che ciò creerebbe danni devastanti a Taranto, alla Puglia e all’industria meccanica italiana.

@rigaz1

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