La sua storia apre il libro “Asia Bibi, Malala e le altre” (ed. San Paolo) di Michela Coricelli (giornalista prima ad Avvenire e ora alla Rai), che racconta storie di giovani donne che si sono opposte all’angusto meccanismo d’intolleranza del Pakistan, che mostra il suo aspetto più violento proprio sui cittadini di sesso femminile.
«ORGOGLIOSA DI SACRIFICARMI PER DIO». Le pagine dedicate ad Asia Bibi si costruiscono attorno alla forza di questa «donna minuta dal viso dolce», travolta da una spirale di accuse e intimidazioni, strappata all’improvviso dall’affetto della sua famiglia, un marito e cinque figli. A sorreggerla non è altro che la grande fede in Dio, che la accompagna nei suoi giorni dietro le sbarre attraverso i testi sacri e la porta a non abiurare in cambio della libertà ma anzi a perdonare i suoi accusatori proprio per seguire l’esempio di Gesù, dicendo al giudice che le ha offerto l’assoluzione in cambio di una conversione all’Islam: «Sono stata condannata perché cristiana. Credo in Dio e nel suo grande amore. Se lui mi ha condannata a morte perché amo Dio, sarò orgogliosa di sacrificare la mia vita per Lui».
Un po’ come Malala, ragazzina pure lei, che ora vive in Inghilterra dopo essere stata vittima di un attacco dei talebani nel nord del Paese: le hanno sparato alla testa e al torace. La sua colpa? Difendere il diritto all’istruzione per le ragazze come lei dai fondamentalisti islamici che spesso distruggono le scuole. La sua storia è nota: l’ha raccontata lei stessa anche all’Onu, lo scorso giugno.
LA LEGGE SULLA BLASFEMIA. Il testo di Coricelli va oltre il semplice “j’accuse” al Pakistan, «una nazione con le sue luci e le sue ombre», e esalta la forza di queste figure. Mettendo in luce gli abusi contorti della legge sulla blasfemia, usata troppe volte per questioni personali costruite spesso su accuse mai verificate, con migliaia di casi ogni anno (nel 2012 sono stati 1.800). Il tutto genera un clima di paura tanto per le minoranze religiose quanto per chi vuole difenderle: emblematica è stata la morte, nel ’97, di Arif Iqbal Bhatti, giudice dell’Alta Corte di Lahore, che aveva fatto scarcerare due cristiani accusati ingiustamente di aver imbrattato il muro di una moschea.
Più recente è la vicenda di Shahbaz Bhatti, ministro cattolico ucciso nel 2009 a Islamabad a colpi d’arma da fuoco mentre viaggiava in auto. Ma il Pakistan non è solo questo, e qualche fiammella di speranza rimane viva. All’Occidente spetta il compito di non dimenticarsi di Asia Bibi e di «tutte le donne del mondo che di fronte all’ingiustizia hanno il coraggio di dire no». Per loro «continuiamo a dialogare, a riflettere, a pregare, a denunciare, a leggere, a parlare, a firmare appelli. A domandarci: io cosa posso fare? Intanto cominciamo dall’inizio. Cerchiamo di capire».