Ascesa e caduta di un sultano mancato. I quattro errori mortali di Erdogan

Dalle "primavere" islamiste alla strage di Ankara. Così i calcoli sbagliati del leader musulmano che sognava un nuovo Impero ottomano rischiano di riconsegnare il paese ai generali

Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti) – Negli ultimi quattro anni Recep Tayyip Erdogan ha disfatto tutto quello che di buono aveva fatto per il suo paese nei primi sette anni di governo: crescita economica, allontanamento dei militari dal potere, libertà di espressione e di stampa, buoni rapporti coi paesi vicini, avvio del processo di pace per la soluzione della questione curda. Alla vigilia delle elezioni politiche anticipate del 1° novembre, tutte queste conquiste sono gravemente compromesse: gli oppositori politici subiscono violenze ed intimidazioni o sono vittime di attentati terroristici di dubbia matrice; i giornalisti vengono arrestati e la stampa silenziata; i rapporti diplomatici sono pessimi con tutti i più importanti paesi della regione (Egitto, Israele, Siria, Iraq e Iran); la guerra col Pkk curdo è ripresa; ai militari, tornati in auge, è stata concessa carta bianca nelle regioni del sud-est e l’economia è sull’orlo di una crisi finanziaria (negli ultimi 30 mesi la lira turca ha perso il 30 per cento del suo valore rispetto all’euro).

La strage di Ankara del 10 ottobre scorso è l’epitome del processo di degenerazione del sistema Turchia, perfettamente fotografata dal commento surreale del deputato dell’ultradestra Lütfü Türkkan il giorno stesso del massacro di 106 di manifestanti pacifisti dei sindacati e del partito di sinistra e pro-curdo dell’Hdp: «Questo attacco o è un fallimento dei servizi segreti, o è opera dei servizi segreti». Commentatori e gente comune sono convinti che la strage di Ankara sia opera di attentatori suicidi dell’Isis che non avrebbero potuto colpire nel cuore della capitale turca se i servizi di sicurezza non avessero chiuso un occhio o addirittura favorito attivamente l’azione criminale. Si tratterebbe di un altro tassello della strategia della tensione e della provocazione che l’Akp (il partito di Erdogan) e i suoi tentacoli istituzionali hanno promosso all’indomani del fallimento dei negoziati per la creazione di un governo di coalizione sulla base dei risultati delle elezioni del giugno scorso, che non hanno concesso al partito islamista la maggioranza assoluta.

Per conquistare i seggi sufficienti a governare da solo, alle elezioni di inizio novembre Erdogan conta di strappare voti soprattutto agli ultranazionalisti del Mhp, che il 7 giugno hanno ottenuto il 16,3 per cento dei voti e 80 seggi, e per fare questo provoca i curdi e la sinistra radicale affinché reagiscano con la violenza e si crei quel clima di paura e insicurezza che dovrebbe spingere gli elettori a vedere in lui l’uomo forte e a preferirlo.

Ci sono molte possibilità che l’esito finale di questo processo di degenerazione sia il ritorno dei militari al potere in una Turchia lacerata dalla violenza politica e dalla lotta armata dei secessionisti curdi. I giornali egiziani, che come tutto l’establishment del Cairo detestano Erdogan e il governo dell’Akp per il loro sostegno al deposto presidente Mohamed Morsi e ai Fratelli Musulmani ora fuorilegge, già vaticinano e pregustano per il mattatore della politica turca un’uscita di scena molto simile a quella del suo sfortunato pupillo che fu capo dello Stato per un anno solo. «Chi cucina veleno è lo stesso che poi l’assaggia», titola il quotidiano cairota Al Maqal. Eppure la trasformazione dell’astuto leader politico islamista moderato che aveva emancipato la Turchia dalla tutela dei militari nell’incauto apprendista stregone che sta aprendo la strada a un Al-Sisi turco è relativamente recente.

Gli errori di calcolo di Erdogan sono cominciati quattro anni fa, ai tempi della cosiddetta Primavera araba, e da allora non hanno fatto che accumularsi. Il primo errore è stato illudersi che gli islamisti avrebbero conquistato e conservato il potere per via elettorale nei paesi investiti dalle proteste popolari, e che la Turchia faceva bene a sponsorizzarli e a presentarsi come loro protettrice: ne avrebbe guadagnato in termini di influenza regionale, avrebbe ricreato in qualche modo l’antico Impero ottomano. Credere che il neo-ottomanesimo insito nell’ideologia dell’Akp potesse tradursi in realtà geopolitica è stato il primo grande errore di Erdogan, favorito dall’intraprendenza con cui l’attuale primo ministro Ahmet Davutoglu si mosse su tale linea quando era ministro degli Esteri (2009-2014).

Oggi tutti gli islamisti arabi per i quali Erdogan faceva il tifo sono in prigione (Egitto) o al fronte a combattere contro i governativi (Siria e Libia) o ai margini del potere (Yemen), con la sola eccezione di quelli che hanno deciso di non imitare le sue scelte: i tunisini di Ennahda sono al governo insieme ai laici di Nidaa Tunes, benché in posizione subalterna. Tutto il contrario della linea tenuta dal presidente turco, che ha sabotato i colloqui per la formazione di un governo di coalizione fra l’Akp e i socialdemocratici del Chp dopo il voto di giugno allo scopo di rendere inevitabili le elezioni anticipate e cercare di nuovo di conquistare la maggioranza assoluta mancata in precedenza. Erdogan sembra amare la solitudine: sa governare soltanto in solitaria e ha isolato il suo paese a livello di rapporti diplomatici.

Le manovre intorno alla Siria
Il secondo calcolo sbagliato del presidente turco riguarda l’esito della guerra civile siriana. Verso la fine del 2012 lui e l’allora ministro degli Esteri Davutoglu presero a dire che i giorni di Assad erano contati: quasi tre anni dopo il capo di Stato siriano è ancora al suo posto, anche se il territorio sotto il controllo delle sue forze è decisamente ridotto rispetto alla superficie del paese. Nel frattempo la Turchia si è trasformata in retrovia dei ribelli siriani antiregime di tutte le denominazioni (anche se ufficialmente ospita solo il Consiglio nazionale siriano, dentro al quale i Fratelli Musulmani detengono la maggioranza relativa), punto di passaggio per i volontari jihadisti diretti al fronte (compresi quelli dell’Isis), facilitatrice dei rifornimenti di armi ai combattenti attraverso il Mit (l’agenzia dei servizi segreti turchi).

Il risultato di tanto impegno è stata l’ascesa politico-militare delle formazioni islamiste più radicali (Jabhat al Nusra che è affiliata ad Al Qaeda, i salafiti di Ahrar al-Sham che vogliono governare la Siria sharia alla mano e l’Isis fautrice di un califfato di marca wahabita) e dei curdi siriani del Pyd, gemmazione del Pkk turco, che ora controllano politicamente e militarmente una vasta fascia di territorio lungo il confine turco-siriano: due casi esemplari di eterogenesi dei fini.

L’attiva partecipazione alla destabilizzazione del governo del paese confinante ha sortito come effetto il sorgere di una doppia minaccia alla stabilità della Turchia: il jihadismo militante che i servizi segreti hanno saputo manovrare e manipolare fino ad oggi (forse fino ad esiti estremi come l’attentato di Ankara), ma che domani o stasera stessa potrebbero sfuggire al controllo dei manovratori come è già successo in tanti paesi in tante occasioni (ne sanno qualcosa le intelligence di Stati Uniti, Pakistan, Siria e Arabia Saudita); la nascita di un altro territorio mediorientale autogovernato dai curdi che si va ad aggiungere al semi-indipendente Kurdistan iracheno e che insieme ad esso rappresenta un polo di attrazione per gli inquieti curdi di Turchia (18 per cento di tutta la popolazione turca).

La politica condiscendente nei confronti dell’Isis da parte del governo turco che tanto ha scandalizzato l’opinione pubblica internazionale è derivata dall’esigenza di contenere la minaccia destabilizzatrice rappresentata dalla cosiddetta Rojava, la regione siriana sotto controllo curdo adiacente alle regioni turche abitate in maggioranza da curdi. In cambio della tolleranza delle autorità turche che hanno lasciato passare uomini e mezzi destinati al califfato, l’Isis ha fatto il lavoro sporco in Siria, concentrando i suoi attacchi contro le roccaforti dell’Ypg (il braccio armato del Pyd) come Kobane e altre località.

La connivenza con le operazioni anti-curde dell’Isis è il terzo calcolo sbagliato da imputare a Erdogan: Pyd e Ypg ne sono usciti materialmente indeboliti nell’immediato, ma politicamente vincenti in prospettiva, mentre fra i curdi di Turchia è cresciuta l’ostilità verso le forze di governo turche, come poi si è visto alle elezioni del 7 giugno. La discesa in campo della Russia, ben decisa a salvare il regime di Bashar el Assad creando una cintura di sicurezza attorno alle aree nevralgiche tuttora controllate dai governativi a spese di tutti i gruppi ribelli, islamisti o filo-occidentali, ha costretto gli Stati Uniti a razionalizzare i propri sforzi. Gli americani hanno rinunciato al velleitario progetto di formare da zero ribelli anti-Isis e anti-Assad e hanno deciso di investire le proprie risorse su forze affidabili perché già impegnate nella lotta contro l’Isis e perché refrattarie alle sirene islamiste di ogni genere. La scelta non poteva che cadere, con grande sconforto del governo turco, che sull’Ypg e i suoi alleati arabi locali. Ankara sta protestando con Washington perché non invii ai curdi siriani armi che domani potrebbero essere usate dal Pkk contro i soldati turchi, ma anche stavolta non può che incolpare se stessa per la piega che hanno preso le cose.

E così passiamo al quarto calcolo sbagliato di Erdogan: il leader dell’Akp si è presentato alle elezioni politiche di giugno convinto di poter conquistare la supermaggioranza parlamentare che gli avrebbe consentito di instaurare una repubblica ultrapresidenziale, ma non ha fatto i conti col malessere degli elettori curdi religiosi e aleviti (minoranza religiosa di tipo sciita) moderati che in passato avevano votato il suo partito, ma che stavolta, disgustati dalla sua politica siriana, lo hanno abbandonato.

In particolare i curdi hanno concentrato i loro voti sull’Hdp, formazione nata dalla convergenza di autonomisti curdi e gruppi della sinistra radicale, ambientalista e femminista. Superando l’altissima soglia di sbarramento del 10 per cento, i curdi e i loro compagni di strada hanno conquistato il doppio dei seggi che di solito vincevano presentandosi da indipendenti e hanno vanificato i progetti di Erdogan. Non solo il partito del capo dello Stato non ha ottenuto la supermaggioranza necessaria per la radicale riforma costituzionale che era stata programmata: non ha nemmeno ripetuto quei risultati che in passato, grazie al premio di maggioranza, gli permettevano di governare da solo. Come detto sopra, il leader non ha accettato di governare in coalizione e ha fatto in modo che si andasse a elezioni anticipate.

Il ritorno dei militari al potere
Arriviamo così a quello che si può prevedere sarà il quinto, fatale errore di calcolo del presidente. La campagna elettorale si sta svolgendo all’insegna delle intimidazioni e delle provocazioni contro gli oppositori legali e della guerra senza quartiere al Pkk, col quale pochi mesi fa Erdogan stava per concludere un accordo di pace definitivo. Decine di sedi dell’Hdp e alcune redazioni di giornali sono state devastate da militanti riconducibili all’Akp mentre scontri a fuoco hanno seminato vittime nel sud-est del paese, fino a quando il Pkk non ha dichiarato una tregua unilaterale pre-elettorale. L’obiettivo di Erdogan era e rimane quello di provocare reazioni violente da parte dei curdi tali da poter presentare l’Hdp come un partito di terroristi e il Pkk come irrimediabilmente dedito alla lotta armata. Stando ai sondaggi, la tattica non sta dando risultati: pare che il responso delle urne differirà di poco da quello del giugno scorso, l’Akp recupererà qualcosa ma non è certo che riavrà la maggioranza assoluta.

Nel frattempo, però, il genio del militarismo è stato liberato dalla bottiglia. La responsabilità apicale della lotta al terrorismo è stata trasferita dalle mani dei governatori a quelle dei militari in tutte e 81 le province del paese. Erdogan si sente tranquillo perché negli ultimi anni ha potuto rimodellare i vertici delle forze armate, grazie alle inchieste che nel 2008 e nel 2012 hanno portato in carcere decine di alti ufficiali delle forze armate accusati di associazione terroristica e di tentato colpo di Stato. Talmente tranquillo che nel marzo scorso ha permesso che un nuovo processo ribaltasse in assoluzioni 200 sentenze di condanna di altrettanti ufficiali delle forze armate. Hulusi Akar, il nuovo capo di Stato maggiore nominato nell’agosto scorso dopo che erano riprese le ostilità col Pkk, è noto come un “falco” contrario ad accordi di pace coi ribelli curdi. È anche uomo molto bene introdotto negli ambienti Nato (è stato di stanza alla base di Napoli negli anni Novanta e fra il 2000 e il 2002). Salvador Allende si fidava molto del suo capo di Stato maggiore, il generale Augusto Pinochet. Si sa com’è andata a finire.

@RodolfoCasadei

Foto Ansa

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