Arringa cristiana e popolare per il «diritto dei turchi a restare turchi»

Ritagli del quartino con le relazioni del convegno di Cll a Riccione nel 1973

Quella che segue è la seconda parte della sintesi delle relazioni tenute al Convegno nazionale di Comunione e Liberazione Lavoratori (Cll, una delle realtà all’origine del Movimento Popolare) che si svolse a Riccione fra il 7 e il 9 dicembre 1973. Le uscite precedenti della serie sono reperibili in questa pagina.

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La seconda parte dell’intervento a due voci di Roberto Formigoni e di Giuseppe Folloni al Convegno nazionale di Comunione e Liberazione Lavoratori (Cll) che si svolge a Riccione fra il 7 e il 9 dicembre 1973 insiste nella critica “da sinistra” alla proposta berlingueriana nota col nome di “compromesso storico”, giudicato come un compromesso fra capitale e lavoro che avvantaggerebbe il capitalismo e l’imperialismo, non i lavoratori italiani e stranieri, migranti e del Terzo Mondo.

Ma soprattutto sottolinea ed evidenzia che non è possibile alcun progresso nella giustizia sociale se non si parte da un’esperienza di liberazione già in atto. La mercificazione dell’essere umano e il recupero di ogni lotta operaia da parte del capitalismo e dell’imperialismo sono un destino fatale, se non si difendono le identità e le unità fra gli esseri umani già esistenti e vitali.

La balla del capitale innocuo perché “pubblico”

L’argomentazione viene sviluppata sotto il curioso titolo di paragrafo “Stato borghese-proletario-imperialista”. «Il ruolo di partner secondario del capitalismo internazionale, assunto nel ‘48 per l’Italia dal governo De Gasperi, è oggi messo in crisi», ragionano Formigoni e Folloni.

«La funzione dell’Italia nel contesto internazionale come paese produttore ed esportatore di beni di medio livello tecnologico […] trova oggi sempre meno spazio. Da qui l’imperativo: o il capitale italiano torna ad essere più aggressivo sul piano mondiale, oppure si avvia verso un inevitabile rinsecchimento. La via d’uscita diventa allora quella di modernizzare il capitalismo italiano tramite un uso più razionale e più spregiudicato dello strumento statale. Si associa lo Stato ai destini del capitalismo: lo Stato diviene una garanzia per la difesa del ruolo internazionale del capitalismo italiano […]. Per fare questo passo, per associare in modo organico lo Stato al capitalismo bisogna allargare il consenso, non basta che siano d’accordo industriali e borghesi, bisogna che tutti siano d’accordo. Ecco allora che si inventa la grande balla: il capitale di Stato è un capitale innocuo, perché è pubblico, perché è di tutti. I primi a bere questa grande balla sono stati e saranno purtroppo cattolici e comunisti […]. Per farci aderire a questo grande accordo occorrerà il compromesso dei partiti, e lo strumento per guadagnare il consenso sarà il sindacato».

La resistenza a questo progetto non può limitarsi a richiamare i lavoratori alla loro condizione di sfruttati, deve difendere la realtà di rapporti umani non alienati già in atto.

«Chi può iniziare questa lunga strada? Questa strada la può iniziare chi ha ancora una vita, cioè una verità vissuta, da difendere, chi si può accorgere che questo sviluppo, questo progresso è solamente alienazione ed espropriazione».

In difesa di circoli di immigrati

I relatori prendono le difese delle organizzazioni degli immigrati turchi in Germania e dei circoli di lavoratori immigrati in generale, accusati da varie parti di rompere l’unità dei lavoratori e di indebolire il ruolo del sindacato.

«Cos’è un circolo politico di immigrati? Per circoli politici immigrati intendiamo luoghi dove si tenta di ricomporre da parte degli immigrati stessi le caratteristiche materiali e culturali della vita lasciata nei luoghi di origine. Si tratta perciò della organizzazione di una resistenza materiale e culturale operata nei confronti della divisione imposta all’immigrato dalla società capitalistica sviluppata. Questa resistenza è resistenza politica e non strumento di integrazione [nel sistema, ndr]».

L’esempio dei circoli di immigrati giustifica il discorso più generale:

«L’unità la si fa non perché si è intruppati alla manifestazione, ma perché ci si unisce. Per unirsi bisogna avere, almeno per un minimo, una propria identità, qualcosa da far resistere e da mettere insieme: una propria faccia. […] Se […] i cristiani non si mettono innanzitutto a difendere gli embrioni di queste realizzazioni, non sapranno neppure ritrovare se stessi e accetteranno l’ideologia dominante che afferma che queste realizzazioni rompono l’unità; difenderanno il proprio benessere, il proprio non senso del vivere, non imboccheranno la lunga strada per il recupero di un gusto politico e della vita».

Una esperienza di liberazione in atto

La difesa del diritto all’identità culturale dei lavoratori turchi immigrati in Germania e degli indios del Brasile emarginati dalle analisi dei marxisti locali sulla lotta di classe affonda nell’esperienza cristiana intesa come esperienza di liberazione integrale, osteggiata a destra e a sinistra proprio per la sua integralità:

«Perché diciamo tutto questo? Lo abbiamo detto perché crediamo che difendere queste cose sia la condizione di quella tradizione che tanto amiamo e rispettiamo del movimento operaio e contadino europeo, delle sue società operaie, delle sue borse di lavoro, delle sue collettività agricole, delle sue leghe, dei suoi consigli. Ma noi crediamo in questo innanzitutto perché abbiamo da difendere l’esperienza di liberazione che questa società vuole a tutti i costi e con tutte le mistificazioni espropriare: l’esperienza fatta di una lunga storia piena di vita materiale e culturale, l’esperienza della comunità cristiana. Questa società che dice che gli indios sono pochi, e tanto vale lasciarli crepare, di fronte ai cristiani, che sono molti, cerca di convincerli, e troppo spesso con straordinario successo, che il cristianesimo non c’entra col fare una società nuova, che il cristianesimo è un fatto della coscienza individuale e una esperienza valida solo per la fine dei tempi, per l’aldilà. E a chi dice che il cristianesimo è già un’esperienza di liberazione in atto, che questa esperienza di liberazione va difesa e che, se difesa, sarà condizione e aiuto per costruire una società nuova, una economia nuova, i “sapienti” di una asfittica sinistra, aggrappata al carro del progresso, vengono a dire che queste affermazioni sono reazionarie, come è reazionario il turco che vuole restare turco […]. Secondo la “cultura” dell’attuale società il turco sarebbe integrista perché vuole restare turco, come a noi dicono che siamo integralisti perché siamo e vogliamo rimanere cristiani».

(2. continua)

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