Il caso Archie e il “diritto” di morire che diventa eutanasia imposta dallo Stato

Nel Regno Unito l'Alta Corte ha autorizzato il personale medico-sanitario del Royal London Hospital a distaccare il ventilatore del dodicenne Archie Battersbee, contro il volere dei genitori e «nel suo interesse»

Tratto dal Centro Studi Livatino – Il 15 luglio 2022 l’High Court of Justice inglese, nella persona del giudice Anthony Hayden, ha autorizzato il personale medico-sanitario del Royal London Hospital a distaccare il ventilatore attualmente applicato al dodicenne Archie Battersbee, contro il volere dei genitori, proseguendo nel percorso della ‘morte di Stato’ verso chi non è autonomo e non ha prospettive di personale benessere.

1. Archie Battersbee è in coma dall’aprile 2022, da quando la madre lo ha scoperto con una corda al collo, probabilmente utilizzata per partecipare a una sfida telematica tra coetanei, in quei nuovi e inusitati tipi di agone in cui i partecipanti gareggiano per chi si avvicina di più al punto di non ritorno, spesso fino alla morte o ai suoi più prossimi paraggi. Da quel giorno Archie è stato ricoverato con gravi danni cerebrali, ritenuti dai medici tanto irreversibili da chiedere la sospensione di quei trattamenti di sostegno vitale che, come la ventilazione artificiale, consentono al ragazzo di restare in vita. Di parere diverso a quello del personale medico-sanitario sono i genitori di Archie, secondo i quali loro figlio reagisce, stringe le loro mani e perfino piange, dimostrando di essere ben più di un semplice “vegetale”.

La vicenda, nelle sue linee generali, richiama ciò che in passato è accaduto nel Regno Unito con i casi di Charlie Gard (2017), di Alfie Evans (2018), di Isaiah Haastrup (2018), di Tafida Raqeed (2019), i quali sono stati tutti al centro di controversie giuridiche e giudiziarie, fra il personale medico sanitario che ha reclamato il dovere di distaccare i trattamenti di sostegno vitale che li mantenevano in vita, e le famiglie che hanno rivendicato il diritto alla vita dei propri figli, alcuni dei quali del tutto curabili, come appunto nel caso di Charlie Gard[1].

Il mondo giuridico contemporaneo occidentale, avendo del tutto alterato i rapporti tra la natura e la politica, tra il diritto e la vita, tra il diritto e la morte che della vita è parte, ha irrimediabilmente sugellato il paradosso per cui nell’epoca in cui la morte viene rivendicata come diritto essa, rovesciandosi specularmente, comincia a essere somministrata come dovere, seppur sotto le mentite spoglie del criterio giudiziario del “best interest” che, nei fatti, diventa un passepartout per l’attuazione di pratiche medico-legali tanatofere palesemente non consensuali, spesso utilitaristiche, talvolta perfino eugenetiche, come tali sempre lesive della dignità dell’essere umano.

2. Proprio al “best interest” di Archie si riferisce la Corte per legittimare il distacco della ventilazione; in questa direzione il giudice Hayden scrive a conclusione delle sue considerazioni, che «questa Corte deve chiedersi se la continuazione della ventilazione in questo caso sia nel migliore interesse di Archie. È con il più profondo rammarico, ma sulla base delle prove più convincenti, che sono spinto a concludere che non lo è. Pertanto, il Tribunale non può autorizzare o dichiarare lecita la prosecuzione del presente trattamento. Dal dettaglio del trattamento che ho esposto sopra risulta evidente che è invadente, gravoso e intensivo. Se ci fosse anche solo la possibilità che si possano registrare dei miglioramenti delle condizioni di Archie, potrebbe essere sia proporzionato che intenzionale. Laddove, come qui, il trattamento è futile, compromette la dignità di Archie, lo priva della sua autonomia e diventa del tutto contrario al suo benessere. Serve solo a prolungare la sua morte, pur non potendo prolungare la sua vita».

Il giudice Hayden accede così a una concezione funzionalistica della dignità umana, cioè all’idea pre cui un soggetto ha o meno dignità in ragione delle funzioni e dell’autonomia di cui dispone: se ha il massimo grado di possibilità di espletare le proprie funzioni (lavorative, relazionali, sociali ecc) godrebbe del massimo di dignità, mentre un soggetto vulnerabile, come Archie appunto, incapace di svolgere alcune delle predette funzioni, sarebbe del tutto privo di dignità[2].

3. La fallacia di una simile premessa è evidente in almeno due dimensioni: dal punto di vista ontologico e dal punto di vista giuridico.

Dal punto di vista ontologico la dignità non è un attributo esterno che si può indossare, perdere o dismettere come un abito o come un titolo, ma costituisce il riflesso della natura umana, come tale indisponibile e insopprimibile a prescindere dalle funzioni, dagli stati, dalle condizioni personali o sociali, temporanee o definitive in cui il singolo viene a trovarsi; se così non fosse, un malato avrebbe meno dignità – cioè meno umanità – di un sano; un giovane atleta olimpionico, a sua volta, avrebbe più dignità di un anziano disabile disoccupato con evidenti distorsioni etiche e noetiche che non occorre approfondire.

Dal punto di vista giuridico la dignità segna, come l’ago della bussola, la direzione dell’orizzonte di senso dell’ordinamento che per sua propria specificità non può che tutelare i più deboli, i più fragili, i più vulnerabili come Archie, per evitare che il diritto, il quale per sua innegabile storia, funzione e natura si oppone all’arbitrio, si tramuti nel suo opposto, divenendo strumento di violenza. Giuridicamente la dignità costituisce uno degli indicatori, (rectius, valori) di universalità (come la giustizia, la razionalità e la relazionalità) che dovrebbero presiedere all’azione del diritto, all’applicazione dell’ordinamento giuridico, allo sviluppo di una autentica e profonda coscienza giuridica del giurista. In tal modo non è la dignità che può essere “attivata” o “disattivata” dai giuristi secondo le circostanze, ma sono i giuristi che, se davvero intenzionati a rimanere tali, devono orientare le circostanze, il pensiero e l’azione a favore della dignità, riconoscendo primariamente la suprema indisponibilità del diritto alla vita di ogni essere umano, soprattutto dei più fragili, quali per esempio sono i pazienti come Archie.

4. Lo scenario della vicenda di Archie si complica considerando la contrarietà dei suoi genitori al distacco del ventilatore, circostanza non trascurabile che apre non soltanto inquietanti scenari, ma soprattutto impellenti interrogativi di carattere giuridico: può il consenso determinato dal favor vitae manifestato da parte dei genitori di un minorenne essere irrilevante ai fini dell’assunzione di una così delicata decisione giudiziaria? Può lo Stato, per il tramite del potere giudiziario, sostituire l’intenzione di cura dei genitori di un minorenne con una opzione determinata esclusivamente dal favor mortis? Quali sono i limiti entro i quali il potere giurisdizionale di un contemporaneo Stato di diritto (come si presume sia l’odierno Regno Unito) può agire arrogandosi uno ius vitae ac necis sui propri cittadini in genere, e sui minorenni in particolare, senza rischiare di negare la propria stessa natura?

La vicenda non è ancora conclusa, dovendosi attendere la decisione d’appello dopo il ricorso, ulteriore, presentato dai genitori di Archie che verrà dibattuto nei prossimi giorni. Continueremo a seguirla e a darne conto, non senza segnalare dove conduce la strada che, anche in Italia, si è aperta con la rivendicazione del ‘diritto’ a morire con dignità.


[1] Sul punto cf. Assuntina Morresi, Charlie Gard. Eutanasia di Stato, FMC, Roma, 2017; Giovanna Razzano, Il diritto di morire come diritto umano? Brevi riflessioni sul potere di individuazione del best interest, sull’aiuto alla dignità di chi ha deciso di uccidersi e sulle discriminazioni nell’ottenere la morte, in L-Jus, ottobre 2018, pag. 97 e ss; Davide Servetti, Dopo Charlie e gli altri “casi Gard”, ripartiamo da alcune domande, in Corti Supreme e Salute, 1/2018; Aldo Rocco Vitale, L’eutanasia come problema biogiuridico, FrancoAngeli, Milano, 2017, pag. 151-156; Francesco Cavallo, Dove l’eutanasia è legge. Dal “diritto” al “dovere” di morire, in Eutanasia le ragioni del no. Il referendum, la legge, le sentenze, a cura di Alfredo Mantovano, Cantagalli, Siena 2021, pag. 215-234.

[2] Sul richiamo alla dignità della vita cf. Mauro Ronco, Il “diritto” di essere uccisi: verso la morte del diritto? Giappichelli, Torino 2019, pag. 287-326.

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