Unʼaltra vita per lʼAmazzonia

Ai vecchi missionari-pionieri del Pime qualcosa non torna del Sinodo di ottobre. A cominciare dalla retorica sulla società ecocompatibile degli indigeni. Racconti demitizzanti

Articolo tratto dal numero di settembre del mensile Tempi. Attenzione, di solito, gli articoli di Tempi sono riservati agli abbonati. Per abbonarsi, cliccate qui

Padre Giovanni Andena ha 88 anni, 58 dei quali trascorsi in Amazzonia come missionario del Pontificio istituto missioni estere (Pime) di Milano. Per decenni ha avuto a disposizione una barca lunga 12 metri per navigare fra le centinaia di insediamenti umani poi divenuti comunità cristiane lungo il Rio delle Amazzoni e suoi affluenti, e ancora oggi sarebbe in grado di riparare il motore diesel in avaria di un fuoribordo. Ma non ha e non ha mai avuto un telefono cellulare o un computer portatile. «Mentre quando ho lasciato Parintins (città dell’Amazzonia brasiliana che conta 100 mila abitanti, ndr) nel 2016 tutti gli indios e i meticci che incontravo avevano il cellulare e ci guardavano i film», racconta seduto su un sofà della Casa di cura per missionari del Pime a Lecco.

Basterebbe questo aneddoto per spalmare una patina di scetticismo su tante pagine dell’Instrumentum laboris del Sinodo per l’Amazzonia (il documento di lavoro dell’assemblea sinodale di ottobre) dove si tessono le lodi dell’ecocompatibile vita indigena primitiva, proposta come esempio di rapporto sano con l’ambiente, e si celebra la sua «cosmovisione» fatta di relazioni dirette con gli spiriti degli animali e delle piante e di riti rivolti alla Madre Terra. Molto più spesso, il rito quotidiano degli indios e dei maggioritari caboclos (il nome locale dei meticci, incrocio di bianchi e indios) è quello di trascorrere alcune ore seduti davanti a una tv che trasmette una telenovela. I confratelli di Giuliano Frigeni, missionario italiano vescovo di Parintins, raccontano che alcuni anni fa il presule si recò a visitare una remota comunità dell’interno: tre ore di battello risalendo il grande fiume e una giornata di cammino nella foresta. Quella sera si giocava Corinthians-Palmeiras, uno dei grandi derby del calcio brasiliano. Il leader della comunità disse al vescovo: «Certo, a quest’ora a lei piacerebbe essere a casa sua e vedere in tv il derby di San Paolo». «Certo che mi sarebbe piaciuto, ma ho preferito essere qui con voi», rispose il missionario. «Eccellenza, non si preoccupi: può vederla tranquillamente qui da noi». Delle 11 capanne abitate da altrettante famiglie, 9 disponevano di televisori serviti da antenna satellitare.

L’Amazzonia a cui si riferisce il Sinodo romano è quella geografica del bacino del Rio delle Amazzoni, un’area di 8 milioni di chilometri quadrati che si estende attraverso nove paesi dell’America latina: Brasile, Venezuela, Suriname, Guyana francese, Guyana britannica, Colombia, Ecuador, Perù, Bolivia. Si tratta di una gigantesca distesa di acque e foreste, ma non mancano le città: Manaus in Brasile e Santa Cruz in Bolivia superano abbondantemente i 2 milioni di abitanti, la brasiliana Belém ne ha più di 1,5 milioni, Iquitos in Perù 500 mila. Più della metà di questa area (circa 5 milioni di chilometri quadrati) si trova in Brasile, ed è abitata da appena 23 milioni di persone. Fra esse gli indigeni non sono più di 250-300 mila, dei quali solo poche migliaia vivono in condizioni primitive isolati dal mondo. Padre Andena scuote la testa: «Gli indios puri non esistono più. Vengono in città e hanno già con sé le loro apparecchiature elettroniche, vendono i loro prodotti e versano il ricavato nel conto corrente bancario a loro intestato, hanno l’abbonamento a SkyBrasil per vedere i film e le telenovelas. Vogliono liberarsi della povertà, dire che devono rimanere come sono, anzi come erano, è una sciocchezza».

I vecchi missionari come padre Giovanni sono criticati da un certo numero di vescovi e teologi brasiliani o europei trapiantati in Brasile che li accusano di aver trascurato le culture locali e di essere gli eredi di un’ecclesiologia datata ed eurocentrica. Accuse in gran parte smentite dai fatti. A promuovere per primi la giustizia sociale e a creare le famose comunità cristiane di base nell’Amazzonia brasiliana sono stati proprio i missionari italiani degli anni Cinquanta e successivi. Racconta Andena, originario del lodigiano: «Quando siamo arrivati noi, i caboclos erano sfruttati in maniera inverosimile: barattavano il guaranà (un frutto da cui si ricava una bevanda eccitante, ndr) e la iuta con prodotti forniti a loro dai grandi fazendeiros, i quali stabilivano sia il prezzo del guaranà che quello delle merci che offrivano in cambio. In breve le famiglie lungo il fiume si indebitavano e diventavano schiave dei commercianti e dei latifondisti. Noi abbiamo creato la prima cooperativa di produttori di guaranà di tutta l’Amazzonia: altri tentativi precedenti erano falliti per mancanza di coscientizzazione, alla quale noi abbiamo dedicato un anno intero. Io e un pastore protestante eravamo consiglieri della cooperativa, formata da una settantina di caboclos. Vendevamo il raccolto direttamente a una compagnia del Sud che produceva bibite. Ricordo che la prima volta che abbiamo distribuito il ricavato fra i soci uno dei contadini svenne per l’emozione: non si era mai ritrovato fra le mani tante banconote! I latifondisti ci accusavano di essere comunisti, la verità è che loro truffavano i coltivatori».

All’iniziativa dei missionari italiani è dovuto il primo ospedale e il sanatorio per i malati di Tbc a Parintins, la prima scuola media superiore a Maués, la seconda cittadina della diocesi (oggi ha 55 mila abitanti) che si trova a 12 ore di battello da Parintins, la prima fornace per i mattoni e altro ancora. Fino a Manaus, che dista 500 chilometri di fiume, non si trovano altre strutture del genere.

La vera storia delle comunità di base

Anche dal punto di vista ecclesiale i missionari del Pime sono stati all’avanguardia: nell’immaginario collettivo la Conferenza di Medellín del Consiglio episcopale latinoamericano nel 1968 è il momento della nascita di una specifica identità ecclesiale latinoamericana, centrata sulla scelta preferenziale per i poveri, il concetto di liberazione e le Comunità di base. In realtà le comunità di base in Amazzonia c’erano già, iniziate dai missionari del Pime alla fine degli anni Cinquanta. «È stata una scelta inevitabile», racconta padre Giovanni. «Fuori da Parintins e da Maués, le due cittadine della diocesi, su una superficie grande come Piemonte, Lombardia e Veneto sommati insieme c’erano e ancora ci sono circa 350 insediamenti umani di 10-20 famiglie ciascuno. Si trovano a ore di battello o di cammino nella foresta dalle parrocchie cittadine. Noi ce li spartivamo e ciascuno di noi missionari ne visitava una cinquantina 3-4 volte l’anno, ma evidentemente non bastava. Come fare a creare vere comunità con vere guide? Non potevamo convocarli alla catechesi in città. Approfittammo della tradizione delle feste patronali, la pratica religiosa popolare più comune in Brasile: nelle grandi città come nelle piccolissime aggregazioni, viene il giorno della festa del patrono, che nella foresta è l’immagine di un santo o una santa che una famiglia custodisce in una cappellina. Le persone vengono anche da lontano per il Rosario pregato e cantato dai “rezadores” sul piazzale di un insediamento e poi per le danze popolari comuni a tutto il Brasile: la quadriglia, la danza del bue, la danza del passero, eccetera. Tutte cose entrate nella cultura brasiliana attraverso l’evangelizzazione dei gesuiti nel Seicento e nel Settecento. Noi arrivavamo puntuali per la festa e ne approfittavamo per fare catechesi a un bel numero di persone. Ci sono voluti 10 anni per formare i leader di tutte le comunità. Li abbiamo forniti di materiale ciclostilato per la celebrazione domenicale della Parola di Dio. Il culto domenicale è stato centrale per la maturazione di quelle realtà, che noi non chiamavamo comunità di base, ma piccole comunità cristiane».
Una delle proposte qualificanti del Sinodo per l’Amazzonia è l’ordinazione di uomini sposati, al fine di garantire la celebrazione domenicale dell’eucarestia, che nella maggior parte degli insediamenti fuori dalle città non ha quasi mai luogo per mancanza di sacerdoti. Con qualche precisazione, la maggioranza dei missionari è d’accordo: «È importante che si tratti di persone anziane che non hanno più figli a carico; in caso contrario, si creerebbero facilmente gelosie nelle comunità, soprattutto nei confronti delle mogli dei nuovi sacerdoti», spiega padre Mauro Romanello, un altro missionario del Pime che ha trascorso vent’anni in Amazzonia (2 a Manaus e 18 a Parintins) prima di rientrare in Italia nel 2017.

Lo preoccupano di più le “aperture” al culto degli spiriti che l’Instrumentum laboris contiene: «Non bisogna mescolare i simboli, perché altrimenti si equivoca la cosa più importante: la natura del sacrificio eucaristico. Deve essere ben chiaro che il soggetto del sacrificio è Cristo, e non lo spirito della foresta». Anche l’idea che serpeggia per tutto il documento, quella secondo cui sotto l’aspetto religioso gli indios sono autosufficienti e la Chiesa cattolica deve limitarsi a difenderli politicamente e a fare la guardia forestale dell’Amazzonia, non convince per niente padre Mauro: «Gli indios hanno la consapevolezza della Caduta, esprimono nostalgia per la “terra senza male”, in cui abitavano e da cui sono stati cacciati. E che cos’è, questa ricerca della terra sem males, se non la attuale condizione umana dopo del peccato originale? E che cristiani siamo se non offriamo Gesù Cristo come risposta alla loro ricerca?».

Quella di Parintins è una piccola diocesi di 226 mila abitanti sparsi in un territorio grande come l’Irlanda, ma si fa notare per un dettaglio statistico di non poco conto: l’86,6 per cento della popolazione è tuttora cattolica. Nel Brasile tutto intero i cattolici sono ormai solo il 64,6 per cento: quarant’anni fa erano l’88,3 per cento. Le sette protestanti, pentecostali ed evangeliche, hanno sottratto a ritmo costante milioni di brasiliani dalla Chiesa cattolica.

I danni della pastorale pauperista

Sarà forse per questo che padre Romanello afferma senza timori reverenziali: «È il risultato di quarant’anni di pastorale pauperista: le classi media e medio-bassa, che hanno faticato per liberarsi dalla miseria, non sopportano la retorica della Chiesa povera e della scelta per i poveri, come se non essere poveri sia una colpa, e passano in massa coi nuovi protestanti. I cattolici sono la maggioranza fra i più poveri e nelle classi medio-basse, col piccolo particolare che la presenza cattolica sta scomparendo nel mondo della cultura, fra gli intellettuali, gli artisti e i politici. C’è un modo di esaltare a parole la povertà che è del tutto ideologico; dice Joãzinho Trinta, uno dei grandi artisti del Carnevale di Rio: “Ai poveri piace il lusso, agli intellettuali piace la povertà”. Ed è veramente così. Trovo davvero strano che nessun media cattolico quando intervista gli indios gli chieda mai se sono contenti degli accessori che la tecnologia moderna gli ha messo a disposizione. Tutti gli chiedono della loro cultura ancestrale o delle multinazionali che invadono i loro territori e li sfruttano, nessuno gli chiede se vogliono migliorare la loro condizione economica: pare che gli intervistatori sappiano già che cosa è meglio per gli indios, e cioè essere i custodi della biodiversità dell’Amazzonia».

Su questo punto la realtà dei fatti sembra essere molto meno entusiasmante della retorica che si trova nell’Instrumentum laboris. Racconta il padre Andena: «Nelle foreste della diocesi di Parintins vivono gli indios Saterê-Maué, e il nostro è uno dei rari territori brasiliani dove il numero degli indigeni è cresciuto negli anni anziché diminuire, come è successo altrove. Ma non vivono più di caccia e raccolta come prima, si sono specializzati nella coltivazione della manioca. La selvaggina scarseggia e i pesci pure, per colpa loro: per pescarli gettavano erbe velenose nelle acque, per estrarre i pesci intontiti. Così si sono intossicati loro e hanno provocato morìe nei fiumi. Oggi pescano quasi soltanto i pesci che risalgono la corrente per andare a deporre le uova».

Conclude padre Mauro: «La Chiesa in Amazzonia non ha bisogno di creare nuovi ministeri, ma di riconoscere quello che è stato fatto e rafforzarlo. Noi ringraziamo i movimenti mariani, che hanno fornito tanti dei leader delle comunità di base, e le Equipe Notre-Dame, che fanno un lavoro preziosissimo a livello di pastorale familiare: in Brasile la famiglia è quasi inesistente, è luogo di abusi e di violenze. Le Equipe hanno salvato migliaia di famiglie, hanno cambiato in profondità la vita delle coppie. In Amazzonia come in tutto il Brasile il sentimento religioso è fortissimo, è qualcosa che viene prima dell’appartenenza alle varie denominazioni cristiane. E si esprime nel culto e nelle feste dei santi patroni, nelle grandi città come nelle comunità più sperdute. Ma è una religiosità che si intreccia con un modo di vivere naturalistico, istintivo, egoista. L’evangelizzazione non consiste nell’aggiustare, insegnando nuove regole morali, il modo di vita mondano, ma nel proporre una cosa diversa rispetto alle logiche del mondo, un’altra vita. Che si vede nei dettagli: l’uomo che smette di essere un ubriacone libertino e porta fuori l’immondizia o lava i piatti, passa il tempo con i suoi figli, ha stima di sua moglie; le donne che smettono di andare in caccia di un “altro” marito o (principale occupazione) spettegolare con le altre donne; la loro casa pulita e accogliente, mentre quella dei vicini, che pure sono poveri come loro, è lurida e disordinata».

Foto Ansa

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