Alla fine giunge per tutti il realismo delle ultime cose

In morte di Umberto Eco, nel momento in cui si moltiplicano gli encomi e si rievoca la carriera

E così ce ne andremo perdendo a una a una
anche le parole più care, ed arrivando
fino a Dio con carte bianche, ma forse
con visi più sereni: mon lecteur, mon frère.
G. Noventa

E così qualcuno se ne va, dietro ai tanti che hanno percorso per intero la linea di questa vita ch’è un correre alla morte. La perdiamo, ci si decostruisce tra le mani, con inesorabile lentezza per qualcuno o esplodendo all’improvviso per altri, pur senza perdere mai, neppure al vertice dello sfinimento, la “struttura” che la costituisce. Perciò non si riescono a rimettere insieme i pezzi, la parti del suo discorso, l’ardita sintassi di tendini e pensieri, fluidi e affetti, muscoli e libertà che si compone nelle irreplicabili geometrie con cui il misterio eterno dell’esser nostro si incarna nella singola persona. Il gioco delle combinazioni e ricombinazioni non riesce a decifrare questo supremo discorso, né vale a replicare il canto che ogni piccolo figlio intraprende venendo alla luce. Guadagnare l’Aleph, il punto dal quale si può scorgere intero l’universo, non è cosa cui si possa aspirare, neppure confidando nella bizzarria della più improbabile delle casualità statistiche sperimentate o sperimentabili. Soltanto un atto di Grazia, la perdita delle parole più care, l’anima come una carta bianca e il viso sereno, evita che il discorso venga dissipato per sempre.

Nel breve momento del clamore, quando si è nel pieno dell’irrevocabile dissesto personale, si moltiplicano gli encomi e si rievocano le carriere: gli studi medievali mai abbandonati dai tempi dell’università in poi, l’invenzione dell’arte che interpreta i segni, i saggi su Mike Bongiorno e l’elogio di Franti, la carriera di romanziere, gli articoli di Dedalus e le bustine di Minerva, i palchi che hanno svezzato la nostrana gioventù antiberlusconiana. Più avanti qualcuno avrà modo di occuparsi ancora del Gruppo 63 in qualche facoltà o classe di liceo, altri discuterà di cultura alta e bassa, forse a tal punto perdendosi negli aggettivi da dimenticare il sostantivo. I più ricorderanno le tetre atmosfere del film che celebrava i secoli della verità nemica mortale del riso e per questo assassina, smascherata dall’illuminato studioso e dal suo giovane discepolo. Meno forse gli altri romanzi, anch’essi organismi complessi, intricate trappole di complotti, piene di enigmi, manoscritti, giornali.

Si continuerà a studiare l’arte dei segni; nuove generazioni di giovani si cimenteranno nella grammatica dei mezzi di comunicazione, negli incroci tra fumetto e letteratura, tra linguaggio del cinema e gergo dei network sociali, inoltrandosi nella ramificazione intricata della selva virtuale fino a smarrire o forzare, nella spensieratezza del gioco, la nozione stessa di segno. Non è storia nuova; capitò a farisei e sadducei che proprio sui segni vollero mettere alla prova il Figlio dell’Uomo: Quando si fa sera, voi dite: Bel tempo, perché il cielo rosseggia; e al mattino: Oggi burrasca, perché il cielo è rosso cupo. Sapete dunque interpretare l’aspetto del cielo e non sapete distinguere i segni dei tempi? Una generazione perversa e adultera cerca un segno, ma nessun segno le sarà dato se non il segno di Giona.

Alla fine, infatti, giunge per tutti il realismo delle ultime cose, ed è il più desiderabile, il più vero, l’unico, a dispetto di tutti gli ismi immaginari e immaginati, idoli dalle mani dell’uomo pre, o post, fabbricati. Ce ne dà testimonianza il più apocalittico tra i nostri geni poetici, il meno integrato anche, volgendosi verso l’aiuola che ci fa tanto feroci da una profondità di luce inimmaginabile per le sonde cosmiche che hanno fotografato il pallido punto blu della terra: il medievale Dante Alighieri.

Cinema e giochi di ruolo ci incoraggiano a pensare al Medio Evo come a una sequenza di secoli “oscuri”, non dico ideologicamente (che al cinema non importa), bensì in termini di colore notturno e ombre cupe. Niente di più falso. La gente del Medio Evo viveva certamente in ambienti oscuri, foreste, androni di castello, stanze anguste illuminate appena dal camino; ma, a parte che era gente che andava a dormire presto ed era più abituata al giorno che alla notte (che piacerà tanto ai romantici), il Medio Evo rappresenta se stesso in toni squillanti. Il Medio Evo identificava la bellezza (oltre che con la proporzione) con la luce e il colore. (…) Dante non ha dunque inventato, giocando su una materia renitente alla poesia, la sua poetica della luce. Se la trovava intorno, e la riformulava, da par suo, a un pubblico di lettori che sentiva la luce e il colore come passione.

È dalla tradizione biblica e dei Padri della chiesa che provengono queste fulgidezze, questi vortici di fiamme, queste lampade, questi soli, questi lustri e queste chiarezze che nascono “per guisa d’orizzonte che rischiari”, queste candide rose, questi fiori rubicondi. Come diceva Getto, “Dante si trovava dunque di fronte ad un linguaggio, meglio, ad una lingua, già costituita ad esprimere la realtà della vita dello spirito, la misteriosa esperienza dell’anima nella sua catarsi, la vita della grazia come gioia stupenda, preludio di una stagione gaudiosa e sacra”. Per l’uomo medievale, leggere di queste luci era come per noi fantasticare sulla grazia flessuosa di una diva, sulla linea ben sagomata di un’automobile, sugli amori di amanti perduti, brevi incontri, foglie morte, barattoli, balocchi e profumi e Marinelle, e con una intensità passionale e brividi dell’anima che ci sono ignoti. Altro che poesia dottrinale e discussione tra maestro e allievo!

Nell’ultimo canto del Paradiso Dante giunge a ficcar lo viso per la luce etterna, fino a consumare la veduta. Nel suo profondo vidi che s’interna, legato con amore in un volume, ciò che per l’universo si squaderna: sustanze e accidenti e lor costume quasi conflati insieme, per tal modo che ciò ch’i’ dico è un semplice lume.

È la forma universal di questo nodo quella che Dante ci consegna, insieme alla gioia nel dire questo vertice della realtà, così passionalmente ricco di speranza, come ebbe a dire Umberto Eco, l’autore delle osservazioni sopra riportate. Gliene auguriamo l’esperienza.

Foto Ansa

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