«Guardavamo i video delle decapitazioni come voi guardate Netflix»

«Il jihad fa parte dell'islam, è un dovere per ogni musulmano». L'interrogatorio a Mohamed Abrini, complice degli attentati al Bataclan e a Zaventem, è un inquietante manifesto dell'estremismo islamico

Manifestazione di “Musulmani contro il terrorismo” di fronte al Bataclan, a Parigi, nel novembre 2017, due anni dopo gli attentati (foto Ansa)

Parigi. Nel 2014, al café Les Béguines, i giovani islamisti di Molenbeek, periferia multietnica di Bruxelles, si riunivano per guardare i video delle decapitazioni jihadiste che arrivavano dall’Iraq e dalla Siria come i giovani occidentali «seguono le serie su Netflix», ha raccontato Mohamed Abrini, l’islamista belga di origini marocchine che ha accompagnato l’amico e terrorista Salah Abdeslam a Parigi due giorni prima degli attentati del 13 novembre 2015 e ha partecipato all’attentato all’aeroporto di Zaventem del 22 marzo 2016.

Il jihad è tutta colpa dell’occidente

Davanti a Jean-Louis Périès, presidente della Corte speciale allestita in occasione del maxi-processo sugli attentati del Bataclan iniziato a settembre, Abrini, oggi 37enne, non ha mostrato alcun rimorso per quanto accaduto, anzi, ha giustificato il massacro perpetrato dal commando jihadista, ha detto di essere orgoglioso del fratello Souleymane, morto combattendo per lo Stato islamico, e ha sottolineato che l’islam che gli occidentali ritengono «radicale», in realtà, «è l’islam normale», il vero islam.

«Esistono dei posti nel mondo dove si pratica l’islam, come in Arabia Saudita (…) La sharia è la legge divina. Per me è al di sopra della legge degli uomini. Se fossi libero, andrei a vivere in un luogo dove si applica la sharia», ha dichiarato durante la sua deposizione la scorsa settimana.

Abrini ha poi difeso il jihad, che «fa parte dell’islam». «È un dovere per tutti i musulmani fare il jihad, anche se si trasforma in una guerra di conquista», ha affermato con raggelante tranquillità. Poco importa che siano morti degli innocenti mentre sorseggiavano un bicchiere di vino in un bistrot o mentre ascoltavano la loro band preferita in una sala concerti: è tutta colpa dell’occidente, dei “kouffars”, degli infedeli che stavano «bombardando la Siria».

«Volevamo rispondere ai bombardamenti»

«Quelli che si sono fatti saltare in aria volevano rispondere ai bombardamenti. In mancanza di un soldato da uccidere sul campo, si commettono degli attentati. Attentati contro bombardamenti», ha detto Abrini, prima di difendere in rapida successione la decapitazione e lo stupro delle yazide, la minoranza irachena perseguitata dallo Stato islamico: «La decapitazione era praticata anche in Francia. Avete decapitato il vostro stesso re! (…). Qui viene chiamato stupro. Ma è successo in tutte le conquiste. Per gli storici sono programmi di natalità quando si tratta di Napoleone o di Alessandro Magno. Lo accetto come voi accettate la storia della Francia, con le sue pagine luminose e le sue pagine buie!».

Il suo amico d’infanzia, Salah Abdeslam, l’unico sopravvissuto degli attentati del 13 novembre, attualmente rinchiuso nel carcere di massima sicurezza di Fléury-Merogis, si era presentato nell’aula speciale dell’ex Palazzo di Giustizia di Parigi dicendo di aver «abbandonato qualsiasi mestiere per diventare un combattente dello Stato islamico». Sei giorni dopo l’inizio del processo, aveva ribadito gli stessi concetti espressi da Abrini: «Sì, abbiamo voluto colpire la Francia per rispondere ai bombardamenti sullo Stato islamico».

E ancora: «Una giudice belga ha parlato di terrorismo, jihadismo. Sono termini che creano confusione. Io dico che non sono terroristi, sono musulmani autentici». Salah e il fratello Brahim, gestore del cafè Les Béguines, erano soprannominati i «gemelli cattivi». Abrini era chiamato «brioche», perché da piccolo lavorava come garzone nel panificio di famiglia. Ma nell’estate del 2015, dopo un viaggio a Raqqa dove incrocia Najim Laachraoui, uno dei due attentatori suicidi di Bruxelles, diventa per tutti “Abou Yahya”.

Exit mobile version