«A giugno questa cabina sarà rimossa». Fine di un modo irripetibile di telefonarsi

Pubblichiamo la rubrica di Marina Corradi contenuta nel numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti)

Milano, maggio. Sulle cabine telefoniche del mio quartiere sono comparsi degli avvisi: «Il 16 giugno questa cabina verrà rimossa». «Il 18 giugno questa cabina verrà rimossa». Forse un giorno le cabine telefoniche ci sembreranno un arredo urbano d’epoca, quanto oggi lo sarebbero i lampioni a gas, o i grossi anelli ai muri delle piazze nei paesi, cui un tempo si attaccavano i cavalli. Già chi ha meno meno di trent’anni, credo, considera le cabine come qualcosa di giurassico.

Ma voi, ragazzi, non sapete cos’erano quelle cabine, quando la Telecom si chiamava Sip ed era un arrugginito monopolio. Non sempre trovarne una era facile. I telefoni andavano a gettoni. Voi non sapete cosa erano i gettoni, di una lega color bronzo, al costo di 50 lire – ma certo, voi non vi ricordate neanche le lire. Comunque, un gettone nel portafogli era una cosa preziosa: la possibilità, nell’urgenza, di telefonare. Sempre a essere fortunati, giacché come sollevavi la cornetta talvolta la linea desolatamente muta ti avvertiva che l’apparecchio era guasto. Succedeva spesso. Le cabine erano delicate e cagionevoli.

Se eri fortunato invece, il telefono ingoiava allo scatto della risposta il gettone con un singhiozzo, un cloc, e parlavi. La categoria che più utilizzava le cabine era quella dei viaggiatori, e infatti stazioni e aeroporti ne erano pieni. Poi, gli innamorati, soprattutto gli adolescenti, per parlare con la fidanzata senza farsi sentire dalla mamma. Memorabili parole d’amore scorrevano in quelle casette gialle, che sapevano di sporco e di fumo. Altri grandi utenti erano i ragazzi di leva, nell’ora di libera uscita. Fuori dalle cabine vicine alle caserme, a una cert’ora, c’era la fila.

Ricordo, a Pisa, alla stazione, la folla dei giovani parà, il sabato pomeriggio, in attesa. E quei “ciao mamma, sono io”, cento volte ripetuto, la cornetta stretta all’orecchio per superare il frastuono dei treni. E nelle interurbane i gettoni venivano mangiati voracemente dal telefono, cloc, cloc, cloc, tanto più rapidi quanto più l’interlocutore era lontano. A volte una manciata di gettoni bastava appena per il tempo di un ciao, come stai, io sto bene. E poi la linea che cadeva e il “tuuu” fisso alla cornetta, oltre la quale non c’era più nessuno.

I cellulari sono stati una straordinaria rivoluzione. Ma, nella meraviglia della connessione continua, qualcosa va perduto, della densità del messaggio. In quelle cabine ricercate, corteggiate, assediate, i ragazzi di leva distillavano in poche sillabe giorni di attesa. E com’erano intense, nelle cabine, di notte, le parole fra gli innamorati. Come se le parole fossero un fiume, e i rari telefoni pubblici una stretta nell’alveo, dopo la quale la corrente è più vigorosa.

Nel tempo dei cellulari, quante cose inutili si dicono. Penso ancora ai parà alla stazione di Pisa: «Mamma, ho nostalgia di casa». «Anna, mancano solo tre mesi e 12 giorni…». E poi cloc, giù l’ultimo gettone, caduta la linea con una città lontana. E quei ragazzi di ritorno in caserma, stretti in un “ti voglio bene”, nel brusio di una linea disturbata.

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