Vincere la pace tra le macerie della Siria

Incontri coi ministri, il gran muftì e il patriarca cattolico. Reportage senza pregiudizi e formalità da un paese fiaccato da sei anni di conflitto, ma che conserva una sua identità

Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti) – Non si parte per un viaggio così con una valigia di pregiudizi. È la prima cosa da lasciare a casa assieme allo storytelling del mainstream mediatico. Il senatore Mario Mauro ed io abbiamo portato con noi quello zainetto di esperienza accumulata negli anni dedicati alla politica, al lavoro parlamentare, in Italia e in Europa, al governo, rispettivamente come ministro della Difesa e dello Sviluppo economico, e alle decine di missioni internazionali in aree di crisi e di guerra. Senza dimenticare quel bagaglio culturale tipicamente europeo, anzi italiano, che trova le sue radici storiche nella culla della civiltà, la cosiddetta mezzaluna fertile. Abbiamo insomma portato con noi gli strumenti per comprendere una realtà complessa. E quella siriana non vi è dubbio che lo sia. È con questo spirito che abbiamo intrapreso una missione istituzionale nella Repubblica araba di Siria sconvolta da sei anni di guerra fra un regime definito dittatoriale e sanguinario e una opposizione che sempre di più sembra corrispondere ad una galassia frastagliata di gruppi di criminali e miliziani tenuta assieme dal comune denominatore del radicalismo islamico. A Tempi ho deciso di raccontare questi cinque giorni come un diario, in cui i tanti eventi che si sono susseguiti si intrecciano alle riflessioni politiche e alle emozioni, inevitabili quando si tocca la storia e l’umanità in una volta sola.

Giorno 1. L’arma dell’amnistia
Ad accoglierci al nostro arrivo c’è Boutros Morjaneh, capo della commissione parlamentare per gli Affari esteri. Parla francese, come quasi tutta la “vecchia guardia” siriana, i giovani hanno imparato l’inglese, ci dice di chiamarlo Pierre. È di Aleppo, lì è nato e cresciuto, ha svolto la sua professione di ingegnere civile ed è stato eletto come indipendente in parlamento; lì ha trascorso con la moglie quattro mesi sotto assedio, fino a quando, con un volo di notte, ha potuto raggiungere Damasco. Sarà la nostra guida e sarà con noi anche nella sua città.

Il primo incontro è con il vice presidente del parlamento, Najdat Anzour, che, non essendovi il presidente, ne svolge le funzioni, e una delegazione di deputati rappresentativa di diversi partiti e proveniente da diverse aree del paese. Non hanno voce sui media occidentali ed è con passione che ci raccontano la loro versione. Hanno visto le proteste contro la corruzione del partito Ba’ath e le istanze di riforme costituzionali divenire una guerra civile; le loro città distrutte, la loro gente scappare o morire, o anche imbracciare un’arma contro il governo e le istituzioni che loro stessi, con orgoglio e coraggio, continuano a rappresentare o all’inverso per difenderle: perché ciò che è chiaro fin da subito è che questo conflitto non è circoscritto ai confini nazionali, è una guerra regionale combattuta dai grandi player dell’area, Arabia Saudita ed Iran, con i loro alleati sul campo, Hezbollah libanese e foreign fighter sunniti; dal Qatar e dalla Turchia che giocano la loro partita sfruttando in maniera massiccia i media, si pensi alla rete all news Al Jazeera con sede a Doha e al ruolo della Turchia nella costruzione della grande campagna mediatica dei white helmet giunta fino alla notte degli Oscar e forse anche al Nobel per la pace; con la Giordania e il Libano invasi di profughi, molti dei quali immigrati economici in cerca di miglior condizioni di vita, perché la Siria ha grandi sacche di povertà, a dispetto di una borghesia affermata ed evoluta, ed è proprio nei quartieri più poveri che un certo estremismo islamico, così lontano dalla tradizione culturale siriana, ha trovato terreno fertile; sullo sfondo, come sempre nello scenario mediorientale, Israele e le due grandi potenze mondiali, Stati Uniti e Russia, tutte impegnate a conservarne lo status, con repentine e continue inversioni di marcia e cambi di strategia, in balia degli andamenti della politica interna e delle elezioni presidenziali, la prima, con un obiettivo più chiaro la seconda, quello di ottenere una base stabile nel Mediterraneo, individuata a Tartus.

In questo scenario spicca come un vero e proprio referendum popolare il dato dell’immigrazione interna: il 70 per cento della popolazione siriana ha fatto una scelta. E non l’ha espressa al sicuro, dietro l’anonimato di una cabina elettorale, ma abbandonando la propria casa con i propri familiari, o con chi era ancora in grado di farlo, raccogliendo i propri averi, o ciò che ne restava, per raggiungere le aree sotto il controllo del governo. Anche quella maggioranza sunnita che nell’immaginario occidentale avrebbe dovuto sentirsi più tutelata dai cosiddetti “ribelli”, anch’essi sunniti, piuttosto che da un governo di minoranza alawita, e quindi sciita, del “sanguinario dittatore”, Bashar al-Assad. E lo incontreremo, ma alla fine di questo viaggio, in un percorso costruito sapientemente da un protocollo governativo saggio ed illuminato. La colazione di lavoro che segue stempera le rigidità del cerimoniale, ma non la passione di colleghi davvero “in prima linea” che prendono sul serio un mandato elettorale che, visto con gli occhi di una democrazia matura come la nostra, non sembra essere rappresentativo di una vera volontà popolare. Si aggiunge a noi una figura chiave, per la storia di questi ultimi anni della Siria e per la nostra comprensione della realtà siriana: il viceministro agli Esteri, Ayman Soussan. Sarà lui ad accompagnarci dal presidente Assad e dunque lo ritroveremo l’ultimo giorno.

A parlarci per primo del processo di pace è il ministro della Riconciliazione nazionale, Ali Haidar: se, da un lato, il governo è impegnato militarmente sul campo contro i circa 100 gruppi di miliziani, dall’altro porta avanti con convinzione un piano di pacificazione: chi accetta di consegnare la propria arma ottiene l’amnistia totale. La cancellazione di ogni crimine, anche il più efferato, che non potrà più essere perseguito dalla legge; in cambio, la riduzione del fronte nemico: un passo verso la riconciliazione riservato ai siriani. Quella dei foreign fighter è tutta un’altra storia, e la vedremo più avanti. I numeri sono chiari: 3.000.000 la popolazione nei territori “riconciliati”, 107.000 gli amnistiati. Dietro a tutto ciò c’è un lavoro capillare di mappatura della galassia jihadista, di identificazione e di ricostruzione del profilo criminale di ognuno a cui verrà garantita l’amnistia totale. Ma dietro c’è soprattutto un uomo, Ali Haidar, che ha ricoperto questo ruolo sin dalla nascita del ministero; un uomo che ha visto suo figlio morire in questa sporca guerra; un uomo in prima linea per la battaglia più difficile: quella per vincere la pace.

Saranno i religiosi a darci le chiavi di lettura più interessanti della società siriana, ed il primo è il patriarca greco cattolico, Youssef Absi. Il garbo con cui il suo segretario particolare ci fa sentire il profumo delle arance amare nel cortile del patriarcato crea un piacevole contrasto con la schiettezza del patriarca nel consegnarci la verità di chi vive da 800 anni come una minoranza pur non accettando di farsi definire e trattare come tale. Sotto il regime di Assad il rispetto e la libertà di culto sono stati garantiti a tutte le confessioni, precisa, ma rifugge la questione della guida del paese. Non intende schierarsi, né a favore né contro, e ricorda come, senza allontanarsi troppo da Damasco, anche Riyad non sia una democrazia. Sulle responsabilità del conflitto sentenzia «la guerra è guerra» con la saggezza di più di 2000 anni di storia e lancia una profezia a noi occidentali: diventerete tutti musulmani. Chiudiamo questa prima giornata con una semplice cena a base di kebab al ristorante dell’hotel, in un gradevole giardino da cui prende il nome e con la musica dal vivo. La cantante ha forse una leggera incrinatura nella voce, ma non si interrompe quando si sentono chiaramente dei colpi provenire dal quartiere di Jobar, in linea d’aria a due chilometri di distanza ad est: sono cannonate, cinque, colpi di avvertimento delle forze governative. Qualcuno ha tentato di superare la ligne de confrontation, come la chiama il nostro amico Pierre. Qualcuno a volte ci riesce.

Giorno 2. L’incontro col gran muftì
Incontriamo il primo ministro, Hamid Khamis. È con estrema ufficialità che si attiene perfettamente alla linea ufficiale: una cospirazione regionale al fine di gettare la Siria nel caos, portata avanti attraverso gruppi armati finanziati da potenze regionali e occidentali; il loro primo obiettivo, le infrastrutture per colpire la credibilità del governo; la cosiddetta primavera araba e la grande campagna mediatica sulla necessità di riforme costituzionali sono l’avvio di questo progetto. Sullo sfondo, la diffusione, finanziata dall’Arabia Saudita, dell’ideologia wahabita, fondamentalista e lontana dalla tradizione culturale siriana. E poi indugia sul rapporto con la Turchia e sul progetto imperialista di Erdogan: un rinnovato impero ottomano che nell’attesa di diffondersi in Europa trova sfogo a sud, in Siria.

Visitiamo poi il centro rifugiati di Ebn Jouber di Dummar a Damasco. È una ex scuola gestita da volontari del governo, le classi sono state divise per accogliere interi nuclei familiari. È molto ordinato e ospita attività scolastiche e anche un piccolo negozio. C’è chi è arrivato da pochi mesi e chi dall’inizio del conflitto, come la ragazza di 17 anni che incontriamo e che, mentre con una mano aggiusta il velo della madre per coprirle meglio il collo, riceve sul cellulare un messaggio che la fa arrossire e che nasconde in fretta alla madre. Anche se alcuni dei mariti o dei padri sono al fronte a combattere il regime, in questo campo vengono accolti i loro familiari. I volontari, che ricevono dal governo solo la copertura delle spese telefoniche, ci assicurano che non viene fatta alcuna differenza. È un preciso proposito del governo: il tentativo è quello di utilizzare il feedback positivo di chi è stato accolto per convincere ad abbandonare le armi a chi ancora è dall’altra parte del fronte.

Il gran muftì è un fiume in piena. Ahmad Badreddin Hassoun abita in una villetta elegante del quartiere più ricco di Damasco, è la massima autorità religiosa del mondo musulmano moderato sunnita siriano ma di nomina governativa. Segno del problema irrisolto della sovrapposizione fra politica e religione nel mondo islamico. Con sorriso aperto e affabile passa dalla religione alla politica: sul primo piano descrivendo un islam moderato e pacifista, che distingue nettamente fra religione e Stato; sul piano politico è la linea ufficiale quella che ci viene proposta, la stessa del primo ministro, ma con una maestria e una sensibilità tutta personale e altrettanto studiata.

Il pomeriggio è dedicato alla vecchia Damasco. Una passeggiata lungo l’antico e fervente bazaar ci conduce alla Grande Moschea degli Ommayyadi. Principale luogo di culto è stata costruita nel 700 sulla pianta del tempio romano e della chiesa bizantina. Lo straordinario mosaico della facciata del luogo di preghiera, l’unico sopravvissuto, cattura subito l’attenzione ma è dentro che la moschea esercita il suo maggiore fascino. Una navata centrale e due laterali, una delle quali dedicata alle donne ed ai bambini che giocano allegri mentre le madri leggono il Corano o pregano o semplicemente parlano. Le navate maschili sono sicuramente meno allegre e festose. In fondo un gruppo di uomini seduti in circolo prega ad alta voce; un accesso di ira nella nostra guida: quelli sono dei fanatici, si affretta a spiegare. E con rabbia e repulsione si augura che lascino presto il suo paese. Noi ci auguriamo non raggiungano il nostro.

Giorno 3. Aleppo è cambiata
È il giorno della partenza per Aleppo. Uno Yak-40, piccolo aereo russo appoggiato stancamente sulla pista, è pronto a trasportare la nostra delegazione. È l’unico che vola, gli altri sono immobilizzati dalla mancanza di ricambi. Con noi i deputati originari di Aleppo. Non manca ovviamente Pierre. Ad accoglierci nella città millenaria che potrebbe essere paragonata a Milano nella contrapposizione con Roma, è qui il maggior fermento economico, è qui che nascono le idee, vi sono il governatore, Hussein Ahmad Diab, e il suo vice. È con loro che studiamo un’enorme cartina della città che copre un’intera parete tracciata con pennarelli di differenti colori a delineare le aree sotto il controllo nemico e quelle liberate dal governo.

Il segretario locale del partito Ba’ath, che incontriamo subito dopo ci offre la migliore rappresentazione della propaganda di regime. Un incontro difficile in cui l’incomunicabilità non è dovuta a differenze culturali, di linguaggio o alla mancanza di volontà del segretario stesso, ma all’incapacità del partito Ba’ath di comprendere e affrontare la complessità del presente. Un partito portatore di un’ideologia stantia, roso al suo interno dalla corruzione e rappresentato in maniera inadeguata da uomini lontani dalla gente: forse la più grande responsabilità del regime di Assad che ha così consentito alle peggiori interpretazioni fondamentaliste della religione musulmana di insinuarsi nella popolazione, soprattutto in quegli strati in cui cova il malessere. Ciò che colpisce di più, guardando attraverso i finestrini dell’auto una Aleppo che mostra i primi segni della guerra, sono le donne: la maggior parte di loro è velata, ma non con il tradizionale velo siriano sul capo, sono coperte in viso, e laddove il velo scopre gli occhi a rimediare vi è la moda di grandi occhiali scuri. Aleppo è cambiata. Lo dicono tutti qui. Lo dice la rassegnazione di Pierre, cristiano di Aleppo, mentre con sempre meno entusiasmo ci descrive la sua città, censurando i racconti concitati in arabo del nostro autista mentre ci indica un angolo della strada con un semplice e piatto «c’était une ligne de confrontation».

L’incontro con i rappresentanti delle diverse chiese cristiane è travolgente. Ad Aleppo sono storicamente rappresentate quasi tutte le confessioni. L’arcivescovo greco cattolico, Jean-Clement Jeanbart, è incontenibile, ci investe con il suo entusiasmo ma anche il suo fervore. Ce l’ha con la Comunità di sant’Egidio che ha organizzato un corridoio umanitario per far fuggire la popolazione dal regime, non dalla guerra. Quel regime, che garantisce ai cristiani libertà di culto. Parla in italiano, creando non pochi imbarazzi e rimostranze in una platea che comprende più l’arabo o l’inglese, che liquida con bonarietà e poi le asseconda traducendo il nostro colloquio in arabo. Cambiano i toni e le lingue, si parla spagnolo, francese e inglese come a voler significare che la spontaneità con cui solo si può parlare di guerra pretende l’utilizzo della propria lingua, senza mediazioni. Ma non cambiano i contenuti quando a prendere la parola sono il presbiteriano o l’ortodosso o il maronita. Si lasciano andare più del patriarca di Damasco a giudizi politici, forse perché la guerra qui ad Aleppo si è sentita di più.

Tutt’altro tono dal muftì di Aleppo, Mahmoud Akkam. Anche il luogo è molto diverso. Se l’arcivescovo ci ha accolto in un’ampia sala, seppur scarna, accanto ad una chiesa antica mostrataci con orgoglio passando per un piccolo cortile colpito da un razzo solo qualche giorno prima, per raggiungere il muftì dobbiamo fare un lungo percorso fra i sottoscala di una palazzina, superando una cancellata e giungendo poi ad un distinto ufficio come potrebbe esserlo quello di qualsiasi autorità politica o capo azienda. Non ha il sorriso affabile, ma un po’ costruito, del gran muftì, ma ha acquisito la sensibilità occidentale in cinque anni di studi a Parigi. Ciò non toglie che quello degli uomini di religione in Siria sembra un coro unanime: questo regime non sarà democratico alla maniera occidentale, ma è in grado di tutelare tutte le confessioni religiose, le minoranze e i gruppi etnici. In quell’equilibrio tipico delle società mediorientali dove una minoranza solo può garantire le altre minoranze e non potrà mai prevaricare la maggioranza. Equilibrio impossibile laddove a governare vi fosse una maggioranza, che per quanto illuminata, finirebbe per schiacciare le minoranze.

Ci aspetta una cena ufficiale al termine della giornata, in cui ritroviamo il governatore di Aleppo e il segretario del partito Ba’ath. Nemmeno l’abbigliamento easy fa sciogliere il rigido esponente di partito: non è che non voglia rispondere alla domanda fatidica – si può individuare, e dunque riconoscere, una opposizione politica tra i “ribelli”? – è troppo lontana dalla sua cultura per poterla capire. A metà della serata iniziano i colpi. Andranno avanti tutta la notte, questi non sono di avvertimento, e si alternano armi differenti. Si combatte nei quartieri ad ovest a soli 3 chilometri dal centro città, verso quella Idlib a 50 chilometri da Aleppo dove i green bus hanno trasportato i guerriglieri che non hanno voluto arrendersi e le loro famiglie: 10.000 fighter, 30.000 familiari. 110.000 coloro che sono rimasti.

Giorno 4. I bambini e le bombe
In questa seconda giornata ad Aleppo nessuna autorità, nessuna mediazione nella percezione dell’impatto della guerra sulla città, sulla gente, su uomini, donne e bambini. Iniziamo da una scuola, una scuola elementare che è stata colpita da un attacco pochi mesi fa. Sono morti dei bambini, compagni di scuola di quelli che incontriamo, e alcuni di loro erano qui quando l’attacco è avvenuto. Non è una visita che si racconta con piacere, perché la guerra è ancora più terribile quando la si guarda attraverso gli occhi dei bambini e perché la visita ad una scuola sotto un regime ha sempre quel sapore poco spontaneo di un’organizzazione perfetta. Ma sono le donne quelle che rompono sempre i protocolli. E questa donna, volitiva e coraggiosa, già si teneva a fatica durante l’incontro con il segretario del partito. È la responsabile all’istruzione e ha voglia di raccontare la sua verità: di chi ad Aleppo ha trascorso tutta la guerra occupandosi dei bambini, assicurando loro la possibilità di studiare, assistendo in ospedali quelli feriti dagli attacchi e consolando i genitori di quelli morti. Ma soprattutto di chi ha costantemente tenuto i rapporti con chi da Aleppo est lanciava le bombe che colpivano la sua Aleppo ovest e i suoi bambini. Ne ha i numeri di telefono, gli parla, cerca di convincerli a smettere. Il contenuto di queste conversazioni ci viene tradotto, e non intendo riportarlo qui per la durezza delle parole e ancor di più dell’ideologia che vi è dietro. Ma rappresenta un tassello importante del quadro d’insieme.

Non ha mai smesso di pagare il salario al personale scolastico, nemmeno a quello dei territori in mano ai ribelli, nemmeno a coloro che hanno sposato la causa jihadista: fa parte di quella strategia governativa in base alla quale alla mano armata corrisponde la mano tesa, pronta ad offrire condizioni economiche e di sicurezza migliori. E in effetti la strategia funziona quando lo stipendio da soldato Isis si riduce drasticamente. Molti tornano indietro, svuotando dal suo interno di manovalanza l’organizzazione terrorista.

Perché è questa la parte civile del conflitto: o meglio è questa la guerra fra siriani. Quella dei foreign fighter è storia tutta a sé, e a darci due importanti chiavi di lettura saranno il ministro degli Esteri Mouallem ed il presidente Assad. Il primo ci dirà che la gerarchia fra siriani e foreign fighter è molto chiara, i primi a prendere ordini, i secondi ai vertici. Mentre è il presidente Assad a sottolineare l’ideologia che vi è dietro: quella islamista in base alla quale è più “vicino” un musulmano del Myanmar piuttosto del mio vicino cristiano. Ecco perché si sono scomodati anche gli Uiguri dal Xinjiang, musulmani sunniti, pur impegnati con la repressione cinese, ma d’altronde è proprio per questa esperienza sul campo che sono graditi. È una guerra per procura. Combattuta da un esercito affiliato ad un partito o a un gruppo etnico. Combattuta da soldati siriani pagati da organizzazioni terroristiche nate e finanziate all’estero e comandati da stranieri. Il popolo non è coinvolto nel conflitto, lo subisce e non si consolida lo spirito nazionale. È una guerra a bassa intensità. Non vi è retrovia dietro la linea del fronte. Non vi sono mezzi militari per le strade. In cinque giorni incontriamo una sola colonna militare di munizioni. I pochi uomini armati in strada sono perlopiù senza divisa. Impossibile per noi sapere da che parte stiano.

Ora tocca alla città parlare: ai quartieri di Aleppo est, sventrati durante la liberazione da parte del regime, a quelli intorno alla Cittadella, distrutti dal ribelli nel tentativo di prendere l’imprendibile rocca. Camminiamo fra le macerie e guardiamo Aleppo distrutta dall’alto delle mura di cinta della Cittadella. Un patrimonio storico e culturale raso al suolo, e con esso migliaia di vite umane. Vi sono parole per descrivere la distruzione? Tantissime e nessuna. Ho sempre scelto di guardare la guerra con gli occhi puntuali della ricostruzione topografica e cronologica, ma quando poi dalla carta passi alla pietra, anche se davanti hai i pezzi ordinati e numerati del minareto della moschea Umayyade di Aleppo non riesci più a vedere solo un minareto distrutto, ma una quotidianità interrotta e una società ferita nel profondo. E la sintesi perfetta è forse quella della vita sospesa dietro un lenzuolo, a sostituire le mura di un palazzo sventrato dalle bombe. Una vita che però, a differenza di altre, continua.

Da che parte stanno? Una domanda ricorrente nel conflitto siriano, anche perché la risposta potrebbe cambiare. È un fronte in divenire, con gruppi di miliziani che nascono dalla costola di precedenti per poi combatterli; con soldati che passano da un fronte all’altro a volte solo per questioni di paga; con la riconciliazione in corso che, in base a logiche spesso legate alle tribù, acquisisce anche interi gruppi di combattenti insieme.

Da che parte stanno ce lo si chiede anche quando si parla di soccorritori. Perché se la stanza del presidente della Mezzaluna rossa è la prima senza almeno una foto di Assad a voler simboleggiare la propria indipendenza, è sulla reale natura del gruppo white helmet che trascino, non senza difficoltà e non senza imbarazzo da parte sua, il direttore operativo, Hail Assi. I membri del gruppo protagonista del documentario premio Oscar sono tutti ribelli e appaiono sul web imbracciando armi. Non proprio dei campioni di pacifismo, ma sicuramente dei campioni di comunicazione. Ed è su questo punto che si accalora il direttore, noi lavoriamo e basta, non spendiamo risorse in comunicazione.

Il primario dell’ospedale di Aleppo ci accoglie con estrema gentilezza nel suo ufficio. È un chirurgo pediatrico. Ha voglia di raccontarci cosa fa l’ospedale di cui è responsabile. Ma traspare in lui una certa insofferenza, di chi sa che altrove sarebbe più utile. Ci chiede di portare i suoi saluti ad alcuni colleghi di Padova che sono stati qui in Siria ad operare bambini. E scopri allora che c’è un’Italia che si è accorta di questo conflitto. A differenza del mondo politico. È con candore che alla fine ammette: non abbiamo pensato a fare video, all’inizio non vi abbiamo proprio pensato, cercavamo solo di salvare tutte le vite possibili, in ogni modo possibile. Con la contraddizione di chi sa di aver fatto la cosa giusta ma al contempo sa di aver perso un’occasione incredibile. Che differenza rispetto ai set posati dei video online dei white helmet, con gli stessi bambini salvati più volte e i feriti sanissimi, prima e dopo il ciak.

Sì, abbiamo ceduto anche noi. Anche noi abbiamo la foto con il piccolo Omran, il bambino della foto nell’ambulanza che ha fatto il giro del mondo. Nasce tutto quasi per caso la sera prima. Non ricordo chi ne parla per primo, ma viene utilizzato come emblema della campagna mediatica antiregime: Omran non è morto e non è stato fatto sparire dal regime. Sta bene, e vive con tutta la sua famiglia in una casa ad Aleppo ovest. La curiosità ci spinge a chiedere di poterlo incontrare. Rifiutiamo di vederlo in hotel, vogliamo andare a trovarlo a casa sua. E arriviamo ad un piccolo portone di una palazzina a tre piani. In cima alle scale strette, ripide e buie, troviamo ad attenderci il padre di Omran. È un volto conosciuto per chi come me questa guerra l’ha seguita anche sui social. Perché Omran più che il simbolo della crudezza di una guerra è il simbolo della potenza dei media. Il padre ci fa accomodare tutti in un salottino, molto dignitoso. Non manca nessuno, anzi forse alla nostra delegazione si aggiunge anche qualcuno, il piccolo circo mediatico che ci accompagna dall’inizio della visita è al completo. È il fotografo ad offrirci dell’acqua, si vede che è di casa qui, in un bicchiere finemente lavorato, uno che fa girare per tutti i presenti. Ho la fortuna di essere il primo. Come in base ad una studiata scaletta, entra un bimbo di circa 5 anni, non è Omran ma il suo fratellino. Ci passa in rassegna tutti con un bacio e si mette da un lato, consapevole che il suo non è il ruolo da protagonista. Stessa cosa per la sorellina maggiore, più reticente nelle effusioni, era anche lei nella foto sull’ambulanza, chissà perché il suo profilo non ha catturato l’attenzione dei media. E poi arriva il grande atteso, il piccolo Omran, con la proprietà di chi quel palco lo ha calcato migliaia di volte. Sono i nostri colleghi siriani a contenderselo di più, segno che non si sentono del tutto amati dalla popolazione. Sono loro a far sedere Omran fra me e Mario Mauro. A questo punto il padre ci racconta come il gruppo, che ha tirato fuori dalle macerie suo figlio e lo ha fotografato, lo ha contattato più volte successivamente. Conosce queste persone, sono legate ad Al-Zinki, pare sia definito un oppositore moderato al regime da alcune organizzazioni internazionali, ma per chi ha un po’ seguito questa guerra è colui che ha decapitato in favore di telecamera un bambino palestinese di 13 anni con un gruppo di allegri amici. Uno dei quali, appunto, il fotografo della foto di Omran che ha fatto il giro del mondo. Gli hanno offerto 10.000 dollari per fare altre foto a suo figlio. Qui 10.000 dollari valgono veramente tanto. Ma li ha rifiutati. Facciamo i complimenti a questo integerrimo padre, la foto di rito con Omran in braccio, una carezza ai due fratellini comprimari, e scendiamo in fretta le scale con un misto di sensazioni, alcune delle quali amare. Abbiamo preso anche noi parte allo sfruttamento mediatico di Omran?

Sulla strada per l’aeroporto ci fermiamo al campo profughi di Gibreen. È un complesso di piccoli magazzini originariamente costruiti dal governo per i commercianti e le piccole imprese e adibiti oggi ad abitazioni per chi ha dovuto abbandonare la propria casa. È un preciso impegno del governo, ci dicono, nessuno dovrà vivere in una tenda. E in effetti quello che colpisce di questi campi è l’organizzazione. Certo le condizioni di vita sono precarie, ma le famiglie siriane conservano integra tutta la loro dignità. Sono sempre i bambini ad avvicinarsi di più, impossibile guardarli e non fare il confronto con Omran.

Il viaggio di ritorno in aereo è silenzioso. Ci sono con noi dei soldati, un paio di oscuri funzionari di regime e i nostri colleghi parlamentari.

Gli occhi di Pierre guardano dall’alto la sua Aleppo con la rassegnazione di chi sa che difficilmente rivedrà la città come l’ha vissuta.

Giorno 5. La bella e la bestia
È il giorno finale e principale della missione. Oggi vedremo il presidente Bashar al-Assad, e al mattino presto ritroviamo il viceministro agli Esteri, Ayman Soussan. È un uomo elegante, ricercato fino all’ultimo particolare, ha modi raffinati, parla francese. Sostituisce tutti i precedenti accompagnatori. Conosce bene la storia del suo paese degli ultimi anni perché ne è probabilmente uno dei protagonisti. Sarà il solo presente all’incontro con Assad, assieme alla political advisor del presidente, Bouthaina Shaaban. I due consiglieri.

È il momento del presidente Assad. Ci aspetta in cima ad una scalinata di marmo bianco, ci accoglie e ci accompagna in un salottino. È affabile, cortese, disponibile. Sembra animato dal desiderio di dimostrarci come abbia compreso il problema del suo paese, come sia assolutamente consapevole della diffusione dell’estremismo islamico sul territorio e come sappia bene che la vittoria militare non sarà sufficiente. È chiaro che è stato informato dell’andamento della nostra visita, e delle nostre insistenti domande. Mette in discussione anche il partito Ba’ath, in particolare la capacità di persuasione della popolazione a confronto con quella dell’ideologia islamica estremista. Il nostro popolo vuole ideologia ancora prima di visione, sostiene. Non è un partito, come il Ba’ath, a cui posso cambiare financo il nome, si affretta a dire, è un’ideologia, altrettanto forte e convincente, l’unica che può arginare la diffusione del wahabismo. E la sua idea è chiara: vuole far leva sullo spirito di nazione, su quel sentirsi prima siriani che appartenenti ad una diversa fede religiosa. Vuol contrapporre lo Stato al panislamismo. Parla della riforma della Costituzione, dell’opposizione dei Fratelli musulmani a qualsiasi tentativo di innovazione e di come sarebbe disponibile anche ad un passo indietro, a tornare ad esercitare la professione medica, se questo fosse utile alla stabilizzazione del suo paese. Spiega come i suoi cittadini abbiano già fatto una scelta con il cosiddetto referendum della migrazione interna verso i territori controllati dal governo e come sia assolutamente determinato a parlare con ogni tipo di “opposizione”, anche ai terroristi, pur di risolvere la crisi. Parla un inglese perfetto e chiama il padre presidente Hafez al-Assad. Ci chiede addirittura quanto tempo abbiamo, come se fossimo noi a poter disporre del suo tempo. Accetta con eleganza domande scomode e critiche, e ragiona in maniera aperta dei problemi ancora irrisolti e delle possibili soluzioni. Parla delle relazioni internazionali della Siria: dei player regionali, come Arabia Saudita, Turchia, Israele; spiega come il rapporto con l’Iran lasci la massima indipendenza alla Siria e come ha ribaltato la situazione sul terreno, e solo a questo punto sono arrivati i russi, tanto da essere oggi sul punto di vincere la guerra militare; e ancora il rapporto con gli Stati Uniti, ed il suo ruolo nel conflitto. Indugiamo a lungo sulla battaglia della comunicazione: sa di avere contro tutto il mainstream mediatico occidentale. È gentile fino ad essere umile, è interessato ad ascoltare, ad accettare consigli, ma anche determinato ad esprimere la propria opinione. Sembra che il nostro tempo sia infinito, chiede quasi scusa quando rientrano le telecamere per altre immagini, segno usuale che l’incontro volge al termine. E infatti l’incontro dura ancora, va avanti per quasi due ore, e fosse per noi durerebbe anche di più. È smart, veloce, per nulla costruito, cordiale, scherza sul contrasto fra la bellezza della moglie e la sua “malvagità”, the beauty and the beast. Un musulmano, formato in Occidente, che crede fermamente che uno Stato secolare ed una forte ideologia nazionale siano la ricetta per tenere assieme il suo paese e consentire la convivenza interreligiosa. La sua assoluta consapevolezza della reale situazione del paese, decisamente maggiore di quella dei rappresentati regionali del suo partito, non cancella la sensazione di lontananza di quel palazzo dal resto del paese. Sembrano due mondi a parte, e lasciando a malincuore la bella sede di rappresentanza ornata di marmi italiani, la riflessione è se possa riuscire nell’impresa e realmente portare la Siria alla pace.

Ci attende un ultimo incontro prima della partenza: il ministro degli Esteri, Al-Mouallem. Ci offre generosamente tutte le risposte che cercavamo. Sembra quasi che i giorni precedenti siano stati una sorta di esame per arrivare solo alla fine ad avere accesso libero alle informazioni. Ma abbiamo poco tempo, e di corsa cerchiamo di carpirne il più possibile. Ad Astana sono rappresentati quasi tutti i gruppi armati presenti sul campo, ed è qui che si raggiungerà la soluzione sul piano militare. Ginevra verrà solo dopo. Ci spiega come Isis stia collassando al suo interno con il venire meno dei combattenti, ma che la sua ideologia non sta collassando; e ancora la competizione fra Turchia e Qatar, la questione curda, e la minaccia del wahabismo. Ci racconta anche lui un episodio inquietante, che è anche stato ripreso sui media occidentali: il salvataggio in territorio Isis di 20 guerriglieri da parte di alcuni mezzi della Cia. Vorremmo capirne di più. Ma abbiamo fatto tardi e dobbiamo scappare.

Ripartiamo con le nostre emozioni negli occhi, con maggiori conoscenze della realtà siriana e con alcuni dubbi: l’Occidente sarà in grado di combattere la battaglia delle idee? Anche noi avremo bisogno di cercare nuove ideologie per arrestare la penetrazione di quella islamica estremista? E il patriarca greco cattolico piuttosto che ad una legittima conversione si riferiva proprio alla possibile diffusione del fanatismo? Ma anche con una radicata certezza: non si può combattere il radicalismo islamico combattendo tutto l’islam. Un certo islam, moderato e secolare, è e deve essere il nostro alleato nella lotta agli estremismi. In sintesi estrema: un paese distrutto da quasi sette anni di guerra, un popolo fiaccato, spaventato dal presente, preoccupato dal futuro; un regime, e soprattutto un partito, il Ba’ath, inadeguati ad interpretare le lacerazioni del tessuto sociale; una guerra combattuta per procura da protagonisti stranieri. Troppi criminali e terroristi, troppe efferatezze per poter dimenticare. Una pace difficile da conquistare da parte di un popolo, quello siriano, che più di altri crede nell’identità nazionale, identità che forse è sopravvissuta anche alla guerra. Una civiltà che ha pochi emuli nel panorama mondiale. E una naturale affinità con il popolo e la storia del nostro paese: ce lo ricordano i gesti, le parole gli occhi di questa gente, fors’anche perché abbiamo cercato di guardare a questa tragedia moderna senza pregiudizio e superficialità.

@_paolo_romani_

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