Via libera ai decreti sul Jobs act. «La rotta del governo sui contratti è anacronistica»

In cosa consiste la svolta di Renzi. Intervista a Francesco Seghezzi (Adapt). «Per curare l'abuso di flessibilità si rischia di ingessare la produzione»

«Oggi è il giorno atteso da anni. Il #JobsAct rottama i cococo cocopro vari e scrosta le rendite di posizione dei soliti noti #lavoltabuona». La giornata politica ieri si è aperta con questo twitter del premier Matteo Renzi, che poi ha presentato i decreti attuativi sul Jobs act. Presentando in conferenza stampa le nuove misure, Renzi ha detto che «l’addio ai co.co.co. è un momento atteso da un’intera generazione di lavoratori. Parole come mutuo, ferie, buonuscita, diritti entrano nel vocabolario di una generazione fino ad ora esclusa. Credo che l’Italia sia in ripresa, queste misure sono pensate per “assunzioni collettive”. Le imprese non hanno più alibi per non assumere. Mai come in questo momento l’Italia è pronta per ripartire». «La novità più interessante è sicuramente il fatto che il tempo indeterminato diventa la forma di contratto per eccellenza, quello verso cui sono riportati anche tutti gli altri contratti» spiega a tempi.it, Francesco Seghezzi, ricercatore Adapt. «Questa rotta scelta dal governo è del tutto anacronistica, perché non risponde alle esigenze di produzione odierne. In questo periodo l’organizzazione aziendale e l’oggetto stesso della produzione spesso cambiano molto rapidamente, e blindare invece la situazione dei contratti può comportare problemi. Insomma si cerca di affrontare il problema del precariato tagliando le gambe al tessuto produttivo del Paese».

Qual è secondo lei la novità più interessante del pacchetto presentato ieri?
Il consiglio dei ministri approva in via definitiva i due decreti presentati a dicembre: ora verranno pubblicati in Gazzetta ufficiale e entro gli inizi di marzo si potrà assumere con il contratto a tutele crescenti, che è sicuramente uno dei punti chiave delle riforme presentate. Se n’è parlato molto, ma finora gli imprenditori non potevano utilizzarlo, mentre erano già previsti degli sgravi per chi ha fatto le prime assunzioni a tempo indeterminato. Il governo si è più volte vantato per il fatto che sono cresciuti i contratti a tempo indeterminato del 23 per cento nella sola Milano. Questo è accaduto, ma non è stato fino ad oggi merito del contratto a tutele crescenti, ma casomai della legge di Stabilità che prevede degli sgravi fiscali sulle assunzioni a tempo indeterminato per tre anni. Questo per Adpat ha un chiaro messaggio: significa che se gli imprenditori hanno già iniziato ad assumere, non avevano tanto il problema dell’articolo 18 o della necessità di licenziare più facilmente, quanto il problema dell’eccessivo costo dei contratti. Abbassando il costo del lavoro si affronta in modo più incisivo il problema della disoccupazione. Sono convinto che nei prossimi mesi il contratto a tutele crescenti influirà positivamente sul trend delle assunzioni e dell’occupazioni, perché è vero che c’è anche una parte di imprenditori che pensa che l’articolo 18 fosse un problema. Ma il punto è quanto dureranno queste assunzioni e se proseguiranno quando si esaurirà la defiscalizzazione.

È d’accordo sul fatto che il contratto a tempo indeterminato diventi un “modello” a cui tendere?
Secondo me è del tutto anacronistico, perché il tempo indeterminato non risponde alle esigenze di produzione di oggi. In questo periodo l’organizzazione aziendale e l’oggetto stesso della produzione spesso cambiano molto rapidamente, e blindare invece la situazione dei contratti può comportare problemi. Insomma si cerca di affrontare il problema del precariato tagliando le gambe. Credo che la strada per contrastare l’abuso dei contratti a tempo sia un’altra. Sarebbe più utile prestare una maggiore attenzione ai casi in cui i contratti atipici possono essere oggetto di abuso e contrastare quelli. In un convegno organizzato di recente da Adapt anche con le associazioni datoriali su questo tema abbiamo discusso sull’importanza della flessibilità, perché il grande rischio di chiudere i contratti a progetto o flessibili non è quello di creare maggiore stabilità, ma maggiore lavoro nero. Flessibilità non è sinonimo di precarietà: occorre fare degli sforzi invece per riportare questi contratti ad un uso più legale. È come se un piede ferito venisse amputato anziché curato.

Renzi ha salutato come una svolta l’addio ai co.co.co e co.co.pro. Come cambieranno ora questi contratti?
I co.co.co e co.co.pro dal 1 gennaio 2016 non esisteranno più. Quest’anno potranno essere trasformati in contratti a tempo indeterminato con alcuni vantaggi per le aziende che lo faranno. Ci sono state anche altre modifiche ai contratti flessibili: saranno eliminati l’associazione in partipazione e il job sharing, un tipo di contratto usato ad esempio nel settore alberghiero, quando una stessa attività viene realizzata da più soggetti anche se nel nostro paese è vero che non è attecchito molto. I contratti a tempo determinato, invece, potranno essere usati per un massimo di 36 mesi. Viene inoltre alzata la soglia dei voucher nel lavoro a chiamata, che finora poteva essere usato per stipendi di un massimo di 5 mila euro all’anno, e ora potrà essere usato per un massimo di 7 mila euro all’anno.

Un’altra novità è il sussidio di disoccupazione universale, la Naspi: come funzionerà?
Il nuovo sussidio di disoccupazione entrerà in vigore da maggio e durerà per un massimo di 24 mesi fino al 2016, e per un massimo di 18 mesi fino al 2017. Può accedere a questo nuovo sussidio di disoccupazione chiunque nei 4 anni precedenti alla perdita del lavoro ha pagato almeno 13 settimane di contributi: sarà valido anche per tutti i contratti subordinati. Con la Naspi, sparirà definitivamente la cassa integrazione in deroga.

E cosa ne pensa?
Il punto è capire come verranno accompagnati questi lavoratori nel ritrovare un nuovo impiego. Alla maggiore apertura nei confronti dei lavoratori con un sussidio corrisponderà anche una maggiore sicurezza nella sua ricollocazione? Il problema è quante risorse verranno stanziate per le politiche attive e ne servirebbero molte. Ieri il rapporto Ocse ha dimostrato che l’Italia è il paese che investe di meno in politiche attive: bisogna investire di più sulla formazione e sul rapporto tra imprese e lavoratori.

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