Ungheria, giornalisti in piazza contro la “deriva liberticida”? Disinformati e ridicoli

«Che vergogna questa Fnsi che manifesta contro l’Ungheria di Orban. Sono stato sposato a un'ungherese e adesso vi spiego perché dovreste leggere Tempi invece delle veline post-comuniste»

Riceviamo e pubblichiamo volentieri un intervento dell’attore Aldo Reggiani.

A proposito dell’indignazione giornalistica e della manifestazione indetta addirittura dalla Federazione nazionale stampa italiana sotto le finestre dell’Ambasciata di Ungheria, domando, punto primo: ma non vi vergognate, non avete il minimo senso del ridicolo, dopo più di cinquant’anni di silenzio, quando voi e i vostri predecessori siete stati zitti e a cuccia di fronte ai crimini, a cominciare da quelli contro la libertà di parola e di stampa, del regime comunista di quel paese, che come tutti i suoi similari regimi nel mondo, torturava e faceva scomparire nel nulla gli oppositori, di questa vostra becera iniziativa?

Punto secondo: mi piace ricordare quanto il ben informato Rodolfo Casadei ha già scritto su Tempi e cioè che non c’è nulla di cui protestare contro Budapest visto che «la legge sui media è stata in realtà modificata su richiesta della Commissione europea» e i suoi «aspetti più discutibili, come le norme che tendono a subordinare il sistema giudiziario al potere politico, vanno visti all’interno della parabola politica post-comunista dell’Ungheria: Orban (che tra l’altro è anche il vicepresidente del Ppe europeo, fascisti pure loro?, ndr) si è ritrovato con una Corte costituzionale e una magistratura che sono state modellate a immagine delle forze politiche attualmente all’opposizione, soprattutto dei post-comunisti (oggi socialisti)».

Punto terzo: permettetemi di portare una piccola testimonianza personale a proposito delle forze politiche («post-comunisti, oggi socialisti») «attualmente all’opposizione» in Ungheria, forze che tanto sostegno antifascista ricevono oggi dalla stampa politicamente corretta europea e dalla Fnsi italiana. Ebbi modo di conoscerle direttamente. Molto direttamente. Le cose andarono così. Nel luglio del 1975, poco più che pischello, mi trovavo a Torino per le riprese del film “La donna della domenica”. Una delle ultime sere, mentre ero a cena con tutta la troupe e non avevo occhi che per Jacqueline Bisset, sentii una rossa esplosiva seduta alla mia sinistra, che nel film faceva una comparsata, che in perfetto “wojtilese” diceva ad un tecnico romano e palestrato, seduto alla sua sinistra e che le aveva evidentemente fatto delle avances: «Io venire a letto con te, ma tu sposi me».

Mi girai verso di lei facendole osservare che il prezzo era un po’ troppo alto per una notte d’amore, al che lei mi rispose che era una apolide ungherese e che il matrimonio le serviva per poter finalmente avere un cittadinanza e poter tornare a Budapest a trovare la sua famiglia, che non vedeva da vari anni, senza finire in galera. La faccenda mi intrigò alquanto. E mi feci raccontare come erano andate le cose. Aveva vinto una borsa di studio ed era stata mandata dal suo Paese a Parigi a frequentare l’università. Poi, però, al momento di tornare in patria, si era rifiutata perché voleva rimanere a Parigi e lo Stato comunista le ritirò la cittadinanza.

Suo padre, titolare di una fabbrica di giocattoli, prima dell’avvento del comunismo, non stava molto bene e lei era impossibilitata a tornare, pena magari sparire nei sotterranei della polizia segreta. E allora lei cercava qualcuno che la sposasse per poter tornare da cittadina straniera, e quindi senza pericolo, a riabbracciare la sua famiglia. Mi raccontò anche che quando riusciva a parlare al telefono con i suoi genitori, doveva stare molto attenta a ciò che diceva, altrimenti loro avrebbero dovuto sopportare pesanti conseguenze. Le sue lettere, se e quando recapitate, naturalmente venivano censurate. Spesso spediva pacchi di generi alimentari e vestiario, cose che nei paradisi del socialismo reale da sempre scarseggiavano, ma ai suoi, quando arrivavano, giungevano dimezzati: anche i doganieri tenevano famiglia. In Italia riusciva a lavoricchiare poiché a Parigi aveva conosciuto il produttore del film, della cui famiglia era poi divenuta ospite a Roma.

Le dissi che a settembre, al mio  rientro a Roma dalle agostane vacanze in Grecia, l’avrei sposata. Tornato in Italia andai a trovare i miei a Milano, dove ero ancora residente, e feci in Comune i documenti necessari agli sponsali. Tornato a Roma la chiamai chiedendole se avesse nel frattempo anche lei fatto, quali che fossero, i documenti necessari agli sponsali civili: la poverina quasi svenne perché pensava che a Torino avessi cazzeggiato. In breve organizzammo con un avvocato un contratto matrimoniale “comme il faut”, con tanto di separazione dei beni, ed in una mattinata di ottobre, in barba alle leggi che prescrivono che ci si sposa solo per metter su famiglia, ci sposammo in Campidoglio. Poi ci salutammo dandoci appuntamento a qualche mese dopo per la separazione.

Un mesetto dopo gli sposali, mi telefonò annunciandomi che stava per partire per Budapest, ma che aveva molta paura di sparire. Mi raccontò anche che era stata ricevuta da un mellifluo console ungherese che, per paura che io impiantassi un casino internazionale (tramite i miei sceneggiati televisivi ero molto popolare anche tra i magiari), oltre che concederle il visto, le restituì pure il passaporto ungherese. Malgrado questo ella non si fidava: e mi chiese, se dopo un mese non mi avesse dato sue notizie, di far intervenire la Farnesina. La cosa per fortuna andò bene. Al suo ritorno le chiesi come mi considerassero i suoi parenti. Rispose: “Come Madonna di Lourdes”. Quattro o cinque mesi dopo il matrimonio effettuammo la separazione consensuale e, cinque anni dopo, il divorzio. Si risposò con un funzionario della Banca d’Italia. È da una dozzina d’anni che non ho sue notizie.

Ora, sarebbe bello che la Federazione nazionale stampa italiana ritrovasse e portasse anche la mia ex sposa al sit-in antifascista di mercoledì prossimo davanti all’ambasciata ungherese. Chissà, ascoltando la mia ex, magari anche la stampa italiana potrebbe incominciare a smettere di pubblicare le veline dei post-comunisti esclusi dal parlamento non dal “fascista” Orban, ma dal furore del voto democratico popolare.

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