Undicesimo: usare la ragione

«Da dove viene il cosmo? Non è un caso che questa domanda, sparita dall’orizzonte di tanti pensatori, compaia sempre nei libri degli scienziati, atei inclusi». Intervista al filosofo cattolico Paolo Musso

Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti) – Paolo Musso ha ottenuto nel 1997 il dottorato in Filosofia della scienza con una tesi sulle implicazioni filosofiche delle teorie del caos e della complessità, lavorando con Evandro Agazzi nonché con Tito Fortunato Arecchi, direttore dell’Istituto nazionale di Ottica di Firenze. Il padre di Musso è ingegnere nucleare, è stato amministratore delegato della Nira e presidente dell’Ansaldo, ed è stato per molti anni il responsabile del piano nucleare italiano (finché non lo hanno chiuso). Carlo, il fratello con cui Paolo da piccolo giocava a fare l’astronauta, ha lavorato come astrofisico all’Alenia Spazio e all’Agenzia spaziale italiana. Il terzo dei fratelli, Enrico, ha scelto un’altra strada, essendosi laureato in arabo ed ebraico.
Attualmente Paolo Musso insegna Filosofia della scienza e Scienza e fantascienza nei media e nella letteratura all’Università dell’Insubria, a Varese, è membro della European Academy of Sciences and Arts e del Seti Permanent Committee della International Academy of Astronautics, gruppo interdisciplinare che si occupa della ricerca della vita intelligente nel cosmo. Soprattutto, è autore di La scienza e l’idea di ragione. Scienza, filosofia e religione da Galileo ai buchi neri e oltre (Mimesis), un capolavoro per conoscenze scientifiche, lettura filosofica e profondità d’analisi.

Professore, come è nata la sua passione per la scienza?
All’origine c’è sicuramente lo sbarco sulla Luna, che mi fece un’impressione enorme, avevo 5 anni. Il primo passo di un essere umano su un corpo celeste diverso dalla Terra: per quanto lontano possiamo andare nel futuro, credo che quella resterà un’emozione irripetibile, come tutte le “prime volte”. Da bambino infatti volevo fare l’astronauta e ancora adesso ricordo come “il” regalo di Natale per eccellenza un casco spaziale con bombole di ossigeno. Poi sono venuti i dinosauri e mio padre, che alternava le storie di Fratel Coniglietto con la teoria della relatività di Einstein: non che capissi tutto, naturalmente, ma quantomeno capivo che avrei voluto capire, e nel tempo credo di esserci riuscito, almeno in parte. Molte delle domande che hanno trovato risposta nel mio libro sono nate allora, quando avevo 8 anni. E pensare che invece oggi in campo educativo si gioca continuamente al ribasso, e con l’intento di non “traumatizzare” i ragazzi si rinuncia a sfidarli a “volare alto”, mentre è proprio quello di cui hanno bisogno.

Perché non ha fatto lo scienziato?
Le confesso che ci ho pensato. E molto. La ragione di fondo è che per fare lo scienziato bisogna per forza specializzarsi, invece per me era essenziale mantenere uno sguardo più ampio sulla realtà. Ho pensato che la filosofia della scienza mi avrebbe permesso di conciliare queste due esigenze apparentemente opposte, ed è stato proprio così, anche grazie alla continua frequentazione dei congressi scientifici, che mi ha consentito addirittura di diventare membro del Seti Permanent Committee: ho potuto non solo vedere il mondo della scienza dall’interno (che è molto diverso che studiarlo sui libri), ma anche fare concretamente ricerca.

Perché un cattolico come lei ama tanto il pensiero scientifico? Cosa ha da dirci oggi?
Anzitutto, io non amo solo il pensiero scientifico, ma proprio la scienza, per tutte le cose straordinarie che ci fa scoprire e che ci rendono sempre più evidente il fascino del mondo in cui viviamo e quindi anche di Colui che l’ha fatto: come dice il salmista, «i cieli narrano la gloria di Dio» e questo non è mai stato così vero come ai giorni nostri, proprio grazie alla scienza. Ma ha ragione a parlare di pensiero scientifico, perché, con buona pace di Heidegger, la scienza pensa. Pensa tanto e soprattutto bene, il che di questi tempi è un’autentica rarità. In effetti dal punto di vista filosofico è proprio questo il contributo più importante della scienza, di fronte a una sempre più diffusa debolezza della ragione che spesso si fa perfino fatica a chiamare relativismo (perché è un modo di pensare talmente sciatto, qualunquistico e superficiale che è difficile riconoscergli la dignità di dottrina filosofica). Per questo mi sorprende che tanti cattolici, compresi illustri intellettuali, vedano con sospetto la scienza e le sue sacrosante esigenze di rigore e precisione, spesso scambiandole per scientismo.

La diffusione dello scientismo è però un problema reale.
Certamente! Ma lo scientismo non è la scienza, è tutt’altra cosa e ha tutt’altre origini. Lo scientismo consiste nella tesi secondo cui la conoscenza scientifica è l’unica affidabile o addirittura l’unica possibile. Per contestarlo occorre quindi definire chiaramente l’ambito entro cui la conoscenza scientifica è valida. Non serve invece a nulla cercare di sminuirne il valore all’interno di tale ambito, anzi, è controproducente, perché il valore della scienza è dimostrato dalle sue scoperte, come quelle del bosone di Higgs o delle onde gravitazionali, due teorie altamente astratte e controintuitive che sono state verificate a distanza rispettivamente di 50 e di 100 anni dalla loro formulazione, e con un livello di precisione sbalorditivo. In particolare nel caso delle onde gravitazionali, si è riusciti a rilevare una deformazione dello spazio inferiore alle dimensioni di un atomo causata dalla fusione di due buchi neri posti a circa un miliardo e mezzo di anni luce di distanza dalla Terra! Qui, oltre alla precisione quasi disumana della misura, colpisce il fatto che essa si basi su una serie di concetti che prima della relatività e della meccanica quantistica non avrebbero potuto neanche essere immaginati. La verità è che oggi per contestare il valore conoscitivo della scienza bisogna completamente ignorare ciò che la scienza è realmente.

Quali sono dunque i limiti del sapere scientifico?
Anzitutto c’è un limite generale, ben chiarito già da Galileo, specialmente nelle Macchie solari, per cui la scienza ha a che fare solo con le proprietà quantificabili dei corpi materiali: di conseguenza non tocca alla scienza dire se esistano o no altri aspetti della realtà, per studiarli si dovranno cercare altri metodi diversi da quello sperimentale e più adeguati all’oggetto. Ma poi in concreto non esiste “la” scienza, bensì “le” scienze, ciascuna delle quali è limitata allo studio di specifici oggetti, che, come ha ben chiarito il mio maestro Agazzi basandosi sulle lezioni metodologiche di Galileo e Einstein, consistono di gruppi di proprietà individuate attraverso le operazioni che ne consentono la misura, e poiché nessuna operazione può avere una precisione infinita, ne segue che per stabilire i limiti di validità di una determinata teoria è essenziale indicare anche il suo margine di errore (molti equivoci circa il valore della scienza all’interno dell’epistemologia contemporanea nascono proprio dal non avere chiaro questo punto fondamentale). Infine, la scoperta del fenomeno del caos deterministico all’inizio degli anni Sessanta ha dimostrato che la creazione di una sola scienza unificata, a cui le varie scienze possano essere ridotte, è impossibile anche in linea di principio e che in molti casi (quando, appunto, un sistema è caotico) le previsioni perdono di affidabilità col passare del tempo. Tuttavia all’interno di questi limiti il metodo scientifico continua a mostrare una straordinaria efficacia.

Ha nominato il suo maestro Evandro Agazzi. Cosa ci può dire di lui?
Parlare del ruolo di Agazzi nel panorama della filosofia contemporanea sarebbe decisamente troppo lungo. Mi limiterò a dire qual è stata la cosa più importante che mi ha insegnato, cioè come fare emergere le istanze filosofiche, comprese quelle propriamente metafisiche, dall’interno della riflessione sulla scienza anziché giustapponendole o, peggio ancora, contrapponendole ad essa. Questa mi sembra una lezione fondamentale, che la filosofia dovrà necessariamente decidersi a imparare, se non vorrà condannarsi all’insignificanza, come purtroppo sta già in parte accadendo.

Lei contrappone spesso Galileo a Cartesio. Perché?
Per quello che ho detto prima. Galileo è stato il vero padre della scienza moderna, non solo per le sue scoperte, ma soprattutto perché ne ha definito con chiarezza la natura e quindi anche i limiti, proponendo un’idea di ragione rigorosa ma non riduzionista, costitutivamente aperta alla realtà e quindi all’imprevisto e al mistero. Cartesio invece, come ho cercato di spiegare soprattutto nel mio libro La scienza e l’idea di ragione, non solo non ha mai fatto nessuna scoperta scientifica, ma non ha mai capito nulla del metodo galileiano, che ha anzi esplicitamente (e sprezzantemente) rigettato, proponendo un’idea di ragione che si basa su un rifiuto aprioristico e irragionevole dell’esperienza sensibile, una ragione chiusa e intrinsecamente riduzionista. In questo senso Cartesio non è il padre della scienza, bensì dello scientismo, anche se personalmente scientista non lo fu mai, fu piuttosto “filosofista” – se esistesse la parola – dato che per lui il metodo della scienza era derivato da quello della filosofia. Tuttavia, una volta affermato che il metodo della conoscenza è unico, era solo questione di tempo prima che si arrivasse a capovolgere la prospettiva, affermando che l’unico metodo affidabile era invece quello della scienza. Comunque, il fatto è che lo scientismo l’hanno inventato i filosofi, cominciando da Hume e Kant, e per quasi tre secoli è rimasto loro monopolio esclusivo: solo nella seconda metà dell’Ottocento cominciò a contagiare anche gli scienziati, peraltro sempre a causa dell’influsso di una teoria filosofica, il positivismo di Auguste Comte. In ogni caso, ancora oggi gli scienziati sono ben lungi dall’essere tutti scientisti e atei come si vorrebbe far credere, anzi, in media lo sono assai meno degli altri intellettuali e in particolare dei filosofi (gli attuali capi del Cern di Ginevra, per esempio, sono quasi tutti cattolici praticanti). E il motivo a mio avviso è il rapporto serio con la realtà a cui sono continuamente richiamati proprio dal metodo scientifico galileiano, un rapporto che rende evidente una cosa: il modo in cui è fatta non dipende da noi. Quindi da dove viene? Non è un caso che questa domanda, oggi pressoché scomparsa dall’orizzonte dei filosofi di professione, compaia quasi immancabilmente nei libri di divulgazione dei grandi scienziati, anche di quelli che si proclamano atei o agnostici. Ecco perché dico che l’importanza della scienza non è soltanto pratica, ma anche culturale, soprattutto in questo tempo privo di senso della realtà.

Lo dice lei che si occupa anche di fantascienza…
Vero. Il mio corso è l’unico del genere in Italia (negli Stati Uniti invece ce ne sono moltissimi). Ritengo che la fantascienza sia molto importante per la comunicazione scientifica, nel bene e nel male. È determinante per la percezione della scienza a livello di massa. Del resto, l’arte popolare è sempre stata lo strumento principale per la formazione della mentalità, e lo è ancora ai giorni nostri: sono solo cambiate le forme, dato che oggi l’arte di maggiore impatto è il cinema. Ma la fantascienza è anche uno strumento formidabile per riflettere sulla natura dell’uomo e sul suo destino, ricuperando così per altra via molte domande tipiche della filosofia: basti pensare che tra i suoi temi principali ci sono l’intelligenza artificiale, la genetica, la vita extraterrestre, l’evoluzione dell’umanità, il futuro dell’universo… Non per nulla la fantascienza tende spesso ad assumere accenti religiosi, il che è certamente un errore, ma un errore altamente significativo, perché è la sua stessa dinamica a indurla inevitabilmente a porsi questo genere di domande. Quindi anziché scandalizzarsene o snobbarla mi pare molto più intelligente utilizzare la fantascienza per suscitare l’interesse dei ragazzi verso la scienza e verso le grandi domande di cui sopra, che attraverso un approccio filosofico tradizionale spesso rifiuterebbero di considerare. E il bello è che funziona. Tra l’altro, in questi due anni di corso ho avuto modo di collaborare con diversi esponenti del mondo della fantascienza italiana (tra gli altri, Antonio Serra e Glauco Guardigli della Sergio Bonelli Editore, Giuseppe Lippi, direttore di Urania Mondadori, Luigi Petruzzelli, titolare delle Edizioni Della Vigna), e devo dire che sono persone davvero speciali, con una cultura impressionante, che va ben al di là del loro campo di specializzazione, e un’intelligenza e una finezza di giudizio fuori dal comune: un’altra eccellenza italiana ingiustamente sottovalutata.

Foto Ansa

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