Una notte in casa Buzzati

Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti) – La villa è antica e molto bella, appena fuori da Belluno. È la casa in cui ciascuno vorrebbe nascere: con un bel giardino curatissimo, e i muri ricoperti di vite americana che si fa fulva, a ottobre, mentre chinano il capo le ultime rose. All’orizzonte la Schiara, il Pelf, le prime Dolomiti, che si alzano imponenti contro il cielo terso del tramonto, come il confine di un altro mondo.

La stanza in cui è nato Buzzati è angolare, al primo piano, e due finestre si affacciano verso ovest, dove un sole rosso va tramontando dolcemente. Sotto, nella vallata, scorre docile il Piave. Dino Buzzati è nato e cresciuto qui, e questa nobile casa sembra ancora dire di lui. Mi immagino un bambino silenzioso che in lunghe estati va esplorando questo giardino, e con lo sguardo scruta le montagne.

Proprio là, verso ovest, quando il cielo è nitido se ne intravede una che pare un dorso di balena: ma solo se non c’è foschia. Mi fa venire in mente i Babau di Buzzati, tozzi, gonfi nell’aria, come senza peso, così come galleggiano i sogni.

In tre stanze una discendente dello scrittore ha aperto un bed and breakfast. Mi dà una bella stanza matrimoniale, con il piumone a fiori e l’odore di legno delle case delle Dolomiti. La finestra affaccia sul giardino fiorito. Mi commuove, dormire dove ha dormito Buzzati.

Quando ero ragazzina non perdevo un suo pezzo sul Corriere, divoravo i libri di novelle. Ero una dodicenne assorta e curiosa, sempre tesa a cercare qualcosa oltre le apparenze delle cose. Speravo che gli oggetti di casa, quando noi non c’eravamo, parlassero, e che le foto dei nonni nelle cornici invecchiassero fino a svanire dalla carta. Mi sentivo strana, e queste cose non le dicevo a nessuno. Ma quando cominciai a leggere i racconti di Buzzati mi si aprì il cuore: nelle sue righe mi sentivo a casa, non straniera. Lo incrociavo anche, a volte, Buzzati, perché lavorava al Corriere come mio padre. Mi intimidiva però, e non gli avrei mai rivolto la parola.

E questa notte, dormo in casa sua. Appeso a una parete c’è un ritaglio con la sua calligrafia tonda, un po’ bambina: scrive che si aggira in queste stanze cercando un rumore che non c’è più, quello di un antico orologio. Mi guardo attorno. Sopra al letto c’è un suo quadro, un enorme gattone che procede verso una schiera di piccoli diavoli rossi – certamente agli uomini invisibili.

Mi rannicchio sotto al piumone, spengo la luce. Riaccendo: sul comodino c’è una copia di Bàrnabo delle montagne. L’ho letto da ragazza.

Lo riapro, ci casco dentro, leggo per un’ora. Niente, non ho sonno. Riaccendo. Leggo: «È che tutti vivono così, come se da un’ora all’altra dovesse venire qualcuno; non l’assalto di un nemico, ma qualcuno, sconosciuto, non si può dire chi». Io, penso, vivo proprio così. In un’attesa cui nemmeno oso dare il nome che spero.

Ma il sonno stanotte proprio non vuol venire. Nessun rumore da fuori. Riguardo il gattone e i suoi piccoli diavoli. Niente, non chiudo occhio fino all’alba. La notte in casa Buzzati è stata tutta un’attesa.

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