Una mano tesa sull’abisso

C’è sempre una scialuppa di salvataggio al naufragio della vita. «Occorreva osare un salto audace». Il nuovo romanzo di Marina Corradi

Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti) – Plumbea appariva l’acqua della Manica e atroce il gesto che stava per fare quella donna, quando «con un disperato coraggio gettò la neonata giù, verso la scialuppa più vicina». C’è già la storia, il grembo vivo di una madre aggrappata a una speranza e quello gelido e mortale del canale in cui sta affondando il ferryboat Sussex colpito da un siluro tedesco il 24 marzo 1916, c’è già l’inizio di quella trama carica di segni ed evidenze che tessono un disegno misterioso fin dalle prime pagine del romanzo L’ombra della madre di Marina Corradi, fresco di stampa per Marsilio: un romanzo di grazia e perdono che si addentra nel territorio sacro degli archetipi che fondano la vita, dissacrato dai dibattiti sull’origine e la maternità di questi tempi plumbei come la Manica. Un romanzo che ci voleva, insomma, di strappi, morte, nascita, lapidi di marmo bianco che si chiudono, tende immobili, divani odorosi di fumo, tram sferraglianti, vagiti più forti dei tuoni nelle notti di temporali, sonniferi, tapparelle abbassate, cieli che esplodono di blu sopra le cime delle Dolomiti.

«Mancarono la presa. La bambina cadde in mare. Affondò nell’acqua scura». Affondò e tornò a galla la bambina del Sussex. E qualcuno dalla scialuppa allungò ancora le braccia, si sbilanciò oltre il parapetto, acciuffò la neonata e la strappò dalle acque gelide che la tiravano a fondo. Fin da piccola Teresa Brot, protagonista della vicenda umana e a tratti autobiografica narrata da Corradi, si sorprendeva a immaginare quei fatti di inizio secolo, al coraggio disperato di nonna Ebe là in alto sul ponte. E a pensare con sbalordimento, guardando sua madre Alba, la più piccola superstite del Sussex, «se quella mano di uno sconosciuto non ti avesse afferrata, nemmeno io sarei nata». Ai suoi occhi non era una donna come le altre. «Era come se venisse da un mondo in cui tutto era tessuto come una trama, in un disegno misterioso; era come se sua madre venisse da una leggenda».

Una leggenda che annacqua la storia dell’imperscrutabile, bilaureata e bellissima Alba, per le figlie un diamante sfolgorante in tutti i suoi carati. «Bisognava essere all’altezza di una simile madre», pensa Teresa incapace di decifrare quel mistero, rovistando nei vecchi scatoloni di fotografie, nei cassetti pieni di vestiti che la madre riduce incomprensibilmente a brandelli, cercando invano risposte nel volto del padre Ermanno, quel giovane ufficiale senza un soldo e un’istruzione, capace un tempo di scrivere bellissime lettere d’amore e ora sempre assente e distante per lavoro, e in quello di sua sorella più grande Viola, così diversa, così misteriosa anche lei, con quel bosco di capelli ricci ritratto in foto prima della nascita di Teresa e ora lisci e muti come il suo viso pallido. Finché accade: una tempesta in pochi mesi travolgerà la famiglia Brot e la sua vita borghese nella Milano degli anni Sessanta.

Le ossa di Viola, la testa di Alba, l’anima di Teresa. In bilico fra la vita e la morte, le piccole evidenze di un sole che continua a sorgere, un nido che si riempie e si svuota, e il bisogno fatale di andare più a fondo del proprio destino, il romanzo è una ricerca continua di una risposta soffocata dalla solitudine e insieme dalla morsa d’acciaio in cui Alba cresce le figlie abili a comprendere il mondo degli adulti con franchezza a tratti irriguardosa, parlando del padre, del bambino che ha perso, della sua tristezza. E che sfociano, in piena tempesta in casa Brot, in un feroce e costante regolamento di conti in sospeso con Teresa, «tuo padre non ti voleva (…) voleva ti buttassi via», «e tutto per colpa tua, perché sei arrivata tu», «la verità, sai qual è? È che avresti dovuto morire tu».

Attacchi di ira devastanti di una madre che si ritrova spesso a chinare il capo e addormentarsi nel grembo della figlia ormai grande.
È proprio la vicinanza con la morte a sfidare Teresa nel profondo, la morte del cordone ombelicale che la lega ad Alba, senza il quale pensava di non poter respirare e senza il quale si trova ad annaspare. La depressione come una sorella perduta e ritrovata negli anni dell’estraneità dentro l’onda della contestazione degli scioperi, nei tradimenti di un’amica e di un amore, trascina Teresa nell’abisso dove soffia anche un audace istinto di vita, una fiera ribellione.

Una domanda vertiginosa
C’è posto per tutto nelle pagine di Corradi, inviata di Avvenire e collaboratrice di Tempi che proprio sul nostro settimanale ogni volta scrive con penna sacramentale della maestà della vita, scovandola nelle pieghe di una realtà che sboccia inaspettata come un fiore, un suono, una luce, di realtà che esiste e non solo resiste al nichilismo, al relativismo, al male di vivere. Una realtà donata all’uomo e che sorge come un’alba nel suo carico di dolore a salvarlo. Come il bagliore di un’alba che nella notte afferra la protagonista del suo libro. «Perché in verità si trattava di un aut-aut inaggirabile, quel punto della vita in cui Teresa ora di nuovo si trovava: avere una speranza, o non averla. Ma, per avere quella speranza, occorreva andare oltre ciò che la sua ragione, educata a credere solo in ciò che si misura e si tocca, consentiva. Occorreva osare un salto audace». Verso una mano tesa sull’abisso. La mano del padre ormai vecchio e ritrovato che bussa come un bambino perché «quello lassù mi apra», che pare darle il permesso di osare anche lei il salto. Quelle di un innamorato conosciuto su una ambulanza. Le sue che sfogliano le Confessioni di Sant’Agostino accarezzando l’idea di un Dio non più perso in cieli siderali ma che abita il profondo del cuore umano, e dà segni della sua presenza fin dal primo tumf-tumf nel grembo materno. Mani che intrecciano un nuovo nido, ancora vuoto, poi pieno, poi di nuovo vuoto, come se ogni filo svolgesse e riavvolgesse il gomitolo della vita, come se ogni morte sepolta in se stessa fosse parte del suo io e il suo io attendesse di venire alla luce.

Ecco perché in questi tempi plumbei come la Manica, di vite di bambine annichilite e ammutolite dalle cinture di tritolo, dalla sterilità dell’industria della riproduzione, dai siluri scagliati a recidere l’origine e la custodia del generato, la lettura dell’Ombra della madre non dovrebbe essere facoltativa, ma obbligatoria. Perché ci riguarda e ci inchioda a una domanda vertiginosa, mendicante, tesa e affidata a mani aperte, come le mani di sconosciuti sporte allo spasimo da una scialuppa di salvataggio per acciuffare un fagotto palpitante e con esso la speranza di salvare dal sepolcro, dallo scandalo, dalla rabbia e dal nulla, una parte di noi.

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