Una giornata in silenzio, lasciando che sia la natura a parlare


Pubblichiamo la rubrica di Marina Corradi contenuta nel numero di
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Monferrato, 27 marzo. Dopo giorni di pioggia, che luce, in questo venerdì di Quaresima. Stentano, gli occhi, ad abituarsi. Sulle colline i ciliegi da un giorno all’altro si sono fatti nuvole candide, e la forsizia splende di oro. Il tiglio, il faggio, il fico, tutti invece ancora quasi spogli. Sulla sterrata che scende al prato grande il silenzio mi sbalordisce. Solo i miei passi, e il cane che corre avanti e indietro, felice. Ma proseguendo, e come sintonizzando altre antenne, comincio a percepire rumori nuovi. Il vento, prima di tutto: il timbro scuro di un vento inquieto, a folate. E, lungo la roggia, argentino, lo sgocciolio dell’acqua che in rigagnoli precipita dai pendii, fradici ancora della pioggia della notte. Attorno a un ciliegio in fiore, un brusio. Mi fermo, alzo gli occhi: è il fervore di centinaia di api al lavoro.

Da lontano, tocchi di campane. Mi volto: là, sulla cima di una collina, una chiesa piccolissima, con attorno il suo cimitero. Mi accorgo che da ogni punto del sentiero, dopo il bosco e a ogni svolta, la chiesa si continua a vedere. Doveva esser dolce, mi dico, una volta, lavorare nei campi e vedere da lontano la casa dei propri morti, e sentirne quasi in quelle campane la voce. Di colpo sussulto alla fragorosa risata di una cornacchia che piomba sul prato, irridente. Mi cadono gli occhi sul tronco antico e massiccio di un gelso rinsecchito, gibboso, coriaceo. Chissà quando hai vissuto, gli dico, chissà quando sei morto. In questo silenzio, capisco, si parla con tutte le cose: con le ultime foglie cadute che mulinano al vento, crepitano, secche come voci di vecchie.

In questo silenzio, mi accorgo, noto cose cui non avrei fatto caso. Come gli arbusti di nocciolo tagliati di fresco, su cui, tuttavia, i germogli avevano fatto in tempo a spuntare. Il fischio di un merlo, oppure sarà un altro uccello di cui ignoro il nome. Ma, dall’alto di una robinia, quella nota sola e costante sembra un richiamo. Cerca una femmina, forse? Se ascolti davvero, nella pace intonsa delle colline anche il canto di un merlo è una domanda struggente. Ci vedo, anche, meglio, stamane. Mi accorgo che il pero cotogno in giardino è pronto a sbocciare. Domani mattina sarà come coperto da una schiera di farfalle bianche. Durerà poche ore. Ma in questa giornata in silenzio l’ho visto, ho colto l’istante.

In cima al vecchio olmo due grossi nidi vuoti ondeggiano leggermente. Aspettano, quieti: torneranno, i migranti. Aspettano, mi viene da pensare, come i morti in quel piccolo cimitero sulla collina; in pace, lontani eppure vicini, in questa luce tersa di marzo. A ovest, alle cinque, il sole inclina la sua parabola sul Monviso, puntuto, e controluce si stagliano netti e neri sulla cima delle colline i profili dei paesi. Case, uomini, storie passate. Nella densità del silenzio mi sembrano quasi accessibili, intuibili, appena tendendo l’orecchio. Salgo in auto, metto in moto e si accende la radio. Si infrange di colpo la bolla dolce, silente, eloquente di questa giornata di marzo.

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