Un istante di luce nel buio infinito dell’inverno

Pubblichiamo la rubrica di Marina Corradi contenuta nel numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti)

Milano, dicembre. Era il pomeriggio di una giornata fuligginosa. Seduta alla sua scrivania, la signora A. guardava oltre i vetri della finestra il buio che piombava rapido sulla città. Erano passate le quattro. Le giornate continuavano ad accorciarsi, come se nell’Universo la forza del Sole fosse agli sgoccioli. O come, pensava A. nel silenzio della casa vuota, se la Terra fosse uscita dalla sua orbita, e, persa la antica strada, si stesse allontanando verso un buio infinito.

A. si alzò, accese tutte le luci nel piccolo studio. Si sentì leggermente meglio. Da fuori, pensò, la mia finestra deve apparire chiara e lucente, dentro alla notte che cala. Se avesse potuto fare quello che sognava, in quei giorni che precipitavano verso il solstizio di inverno A. si sarebbe barricata nella sua camera da letto, chiudendo gli scuri delle finestre e anzi raggomitolandosi nelle coperte, con la testa sotto al cuscino. Una caverna, era ciò che desiderava in quel momento dell’anno, una caverna in cui cadere in letargo, e dormire, dormire, e nulla sapere del gelo di fuori: per uscirne, infine, ai primi chiari giorni di marzo. Devo avere ancora in me, si disse A., qualcosa della forma mentis dell’uomo primitivo, che si chiudeva nelle sue tane per sopravvivere all’inverno.

Ora, alle cinque, la notte era piena. La signora A. sbuffò: doveva portare giù il cane. Gli mise il guinzaglio, si intabarrò in un cappottone nero e, recalcitrante, uscì di casa. Le luci dei negozi, i fari delle auto la confortarono un poco. Ma stava calando una foschia sottile che impallidiva anche quelle luci urbane. Attorno ai lampioni si allargava una pozza di nebbiolina chiara. Come se la luce facesse fatica a penetrare, nell’aria densa di fumi. A. chinò il capo e accelerò il passo. Il cane, indispettito, tirava per fermarsi ai suoi alberi preferiti.

Si allontanò verso il Parco Sempione, in vie più solitarie e buie. La nebbia andava salendo. Ora A. camminava, camminava in fretta, come in una fuga. Anche i rami ischeletriti degli alberi, lo scricchiolio del tappeto di foglie cadute le facevano male. Sembravano gemiti deboli di vecchie. Come tutto mi pare morto, questa sera, pensò.

Nella nebbia ormai densa le arrivò il tocco di una campana. Ne seguì l’eco e si trovò di fronte a una grande chiesa. Legò il cane alla soglia, spinse la porta. C’era Messa. Le navate erano un grembo ombroso. Il sacerdote sull’altare stava innalzando l’Eucarestia. Il piccolo disco bianco sembrò a A. per un istante candido, splendente. Le sembrò capace, da solo, di colmare tutta la oscurità di quella sera. La signora A. si sedette a un banco, pensierosa e stupita. Uscì, slegò il cane e tornò verso casa. Nel fondo del suo buio, serbando la memoria di un istante di inimmaginabile luce.

Foto tram da Shutterstock

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