Turchia, elezioni: l’Economist attacca Erdogan ma rischia di favorirlo

Dopo Clinton, Chirac e Berlusconi, l'Economist attacca il premier uscente turco Recep Tayyip Erdogan, che i sondaggi per le elezioni politiche del 12 giugno danno con il suo Akp tra il 40 e il 45%. Ma dopo gli attacchi ricevuti dal settimanale il suo gradimento è aumentato e ora rischia di ottenere i tre quarti dei seggi in Parlamento per cambiare la Costituzione senza referendum

L’Economist ne ha combinata un’altra delle sue. Dopo Bill Clinton invitato alle dimissioni al tempo dell’affare Lewinsky, Chirac messo sulla graticola per certe faccende quando era sindaco di Parigi e Berlusconi dichiarato “inadatto a governare”, un altro leader politico mondiale potrà dichiarare di essere sopravvissuto ad un assalto del settimanale britannico e di esserne uscito decisamente rafforzato. Stavolta il fortunato è Recep Tayyip Erdogan, dal 2002 primo ministro della Turchia a capo di un governo monocolore del Partito della giustizia e dello sviluppo (Akp, islamisti moderati).

Alla vigilia delle elezioni politiche del 12 giugno, i sondaggi davano il partito in netto vantaggio sui concorrenti, ma con un gradimento leggermente inferiore ai voti raccolti nelle precedenti elezioni: gli elettori orientati a votare l’Akp erano stimati fra il 40 e il 45 per cento, contro il 47 per cento di consensi raccolti dal partito nelle politiche del 2007.

Poi sono arrivati un editoriale e un esteso servizio dell’Economist contenenti il seguente messaggio: i governi Erdogan hanno fatto bene dal punto di vista dell’economia e non hanno dato impulso a una deriva islamista, ma negli ultimi tempi hanno mostrato inclinazioni autoritarie, perciò bisogna impedire che nel prossimo parlamento l’Akp disponga della maggioranza qualificata utile a modificare la costituzione senza bisogno di compromessi con altri partiti o di referendum confermativo; perciò il 12 giugno bisogna votare per l’opposizione rappresentata dal Chp, il Partito popolare repubblicano (nazionalisti di centrosinistra), che con la sua nuova leadership ha provveduto a prendere le distanze dai militari, coi quali in passato si identificava al 100 per cento.

A Erdogan e agli alti dirigenti dell’Akp non è parso vero di poter approfittare di una così abissale ignoranza dei meccanismi della psicologia e della cultura politica turche: nei loro comizi hanno preso a denunciare il complotto pluto-sionista contro la Turchia, e le frecce dei sondaggi sono ripartite verso l’alto. Fino alla scorsa settimana i comizi di Erdogan e di Kemal Kilidaroglu, il leader del Chp, attiravano più o meno la stessa quantità di folle (anche se i repubblicani non sono accreditati oltre il 30 per cento), ma nello scorso week-end il comizio a Istanbul di Erdogan ha riunito più del doppio dei partecipanti a quello del suo rivale. «Certa stampa internazionale, sostenuta da Israele, non sarebbe contenta se il governo dell’Akp continuasse. Attualmente le loro mani sono sulla Turchia», ha dichiarato all’agenzia di stampa nazionale Erdogan. Altri esponenti del partito hanno parlato di «impatto della lobby israeliana sui media internazionali», di «oscure elites internazionali», di «capitalisti stranieri».

Le accuse di autoritarismo che l’Economist indirizza al governo uscente non sono tanto facili da sostanziare: è vero che in Turchia ci sono più giornalisti incarcerati che in Cina (da 50 a 60 a seconda delle fonti), molti dei quali accusati di reati strampalati come la cospirazione per far cadere il governo, ma è un fatto che a ordinare gli arresti è il potere giudiziario e non l’esecutivo; lo stesso potere giudiziario che l’anno scorso era stato sul punto di mettere fuori legge l’Akp per attentato alla Costituzione. Più che all’autoritarismo fa pensare al gioco sporco l’apparizione su Youtube di video di politici dell’Mhp (partito ultranazionalista di destra) impegnati in performance erotiche con prostitute: la vicenda, che ha causato dimissioni a catena nel partito di riferimento dei “lupi grigi”, potrebbe impedire all’Mhp di superare lo sbarramento del 10 per cento necessario per ottenere seggi nel parlamento e questo andrebbe certamente a vantaggio dei disegni dell’Akp di poter modificare la Costituzione senza dover negoziare con nessuno. Ma l’introduzione strumentale del sesso nella lotta politica non sembra essere una esclusiva della Turchia. Anche l’esistenza di 10 mila liti giudiziarie in corso contro giornalisti della stampa e della tivù e scrittori non è probante come si dice: da sempre la libertà di stampa e di espressione in Turchia è sotto pressione, e l’estrema suscettibilità alle critiche non è una prerogativa esclusiva dell’Akp.

Le probabilità che l’Akp conquisti una maggioranza parlamentare dei due terzi non sono molto alte: attualmente dispone del 61 per cento dei seggi grazie al 47 per cento dei voti conquistati nel 2007, e per poter fare meglio deve sperare che l’Mhp non entri in parlamento e che i candidati curdi che si presentano come indipendenti (aggirando astutamente lo sbarramento del 10 per cento, che riguarda solo i partiti costituiti) non vengano eletti. Dovesse riuscirci, dovrebbe ringraziare i suoi involontari sponsor d’Oltremanica. Zaman, quotidiano filo-Akp, ha ironicamente definito l’intervento dell’Economist a favore del Chp come «un complotto ai danni del Chp».

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