Te Deum laudamus per la missione di cui ci hai investiti

Un anno vissuto da prete tra la “gente-gente”, dal carcere di Rebibbia ai secolarizzatissimi Stati Uniti, per riscoprire quanto è vero che i cristiani sono «i più civici fra gli uomini»

Questo articolo è tratto dal numero di Tempi in edicola a partire dal 31 dicembre (vai alla pagina degli abbonamenti), che è l’ultimo numero del 2015 e secondo tradizione è dedicato ai “Te Deum”, i ringraziamenti per l’anno appena trascorso. Nel “Te Deum” 2015 Tempi ospita, tra gli altri, i contributi di Antonia Arslan, Sinisa Mihajlovic, Luigi Brugnaro, Marina Terragni, Totò Cuffaro, Gilberto Cavallini, Luigi Negri, Costanza Miriano, Mario Adinolfi, Marina Corradi, Roberto Perrone, Renato Farina.

Laureato in Medicina a Milano nel 2005, Alberto Frigerio ha interrotto la scuola di specializzazione per entrare in seminario. Ordinato sacerdote dal cardinale Angelo Scola il 7 giugno 2014, attualmente studia al Pontificio Istituto Giovanni Paolo II per Studi su Matrimonio e Famiglia presso la Pontificia Università Lateranense di Roma e presso l’Università Cattolica di Washington.

«Libero-libero-libero…». Con queste parole, scandite dai colpi battuti sugli stipiti delle porte blindate, le amiche della Sezione AS (alta sicurezza) del carcere femminile di Rebibbia hanno salutato la mia partenza per gli Stati Uniti. Il rituale, solitamente tributato alle detenute che si apprestano a uscire di prigione, ha così segnato il transito da Roma a Washington, dove da alcuni mesi sto frequentando la sezione americana del Pontificio Istituto Giovanni Paolo II per Studi su Matrimonio e Famiglia. Italia e Usa, questi i poli attorno a cui è ruotato l’anno passato e da cui s’innalza il Te Deum a Colui che guida il ritmo della storia.

 Della vita romana, costellata di incontri (preziosi quelli del Pontificio Seminario Lombardo), ricordo con gratitudine il fecondo intreccio di studio e attività pastorale. Il servizio in carcere mi ha visto impegnato per la celebrazione domenicale della Messa e la visita in reparto. Lungo l’anno diverse sono state le occasioni d’incontro con le detenute: ricorrenze liturgiche, incontri di studio con alcune donne iscritte all’università – tra cui una giovane musulmana con cui si è discusso della vocazione, di Dio, del mysterium iniquitatis –, compleanni onorati dalle più prelibate specialità del Sud d’Italia. L’attività svolta mi ha messo faccia a faccia con un mondo intriso di sofferenza (per il male fatto e subìto, per i complessi rapporti familiari con figli, genitori, mariti, compagni), in cui vengono a galla quasi con prepotenza le domande più radicali dell’esistenza: che senso ha la vita? È possibile redimersi? Chi perdona il male compiuto?

Ricordo di quella volta in cui una detenuta si è rivolta a me chiedendomi: «Padre Alberto, Dio potrà perdonarmi per quello che ho fatto?». E io d’impeto le ho risposto che sì, con Dio è possibile ricominciare sempre, perché Dio è misericordia, Egli non soprassiede al male ma corregge dentro un abbraccio che continuamente rigenera. Con le donne dell’AS è nata una solida amicizia, fatta di intensi dialoghi, partite a carte (col baro), ascolto della musica e lettura di poesie. Con l’arrivo dell’estate, dopo il consueto caffè accompagnato da una buona pastiera napoletana e qualche battuta scambiata nel cortile della sezione (alcune passibili di censura), è iniziato il torneo di badminton, che ha visto impegnate diverse detenute insieme al sottoscritto: uno spasso! L’esperienza in carcere è stata una grande occasione per vivere le domande costitutive della vita, favorendo lo sviluppo di una riflessione teologica ancorata ai problemi della “gente-gente”, facendone emergere la portata esistenziale e venendo da essa illuminata.

L’impegno accademico, incentrato su temi culturali decisivi (significato dell’amore, rilevanza personale e civile della famiglia, tema della natura), è stato arricchito dall’incontro con preziosi maestri e dall’amicizia di preti, religiosi e laici provenienti da tutto il mondo, dalle zone martoriate da guerre e persecuzioni ai paesi pervasi dalla secolarizzazione; l’incontro con questi compagni di strada ha accresciuto la percezione del mistero che è la Chiesa, il valore del martirio, il compito che noi cristiani abbiamo gli uni verso agli altri e di fronte alla società.

Lo stesso sentimento di gratitudine per la grazia ricevuta si sta facendo largo in me in questi mesi negli Stati Uniti, il paese di Planned Parenthood e del #LoveIsLove, cui si pone a servizio l’imperativo tecnologico di woodyalleniana memoria, secondo cui tutto è lecito “Whatever Works”. La lettura dei quotidiani, lo studio di tematiche giuridico-morali, i dialoghi con tante persone incontrate, tutto dice dell’imporsi di una mentalità laicista, che abolendo Dio dall’orizzonte degli uomini sta conducendo inesorabilmente all’abolizione dell’uomo. La crisi antropologica e la deriva morale ad essa connessa stanno facendo emergere il vuoto che domina tanta parte della civiltà occidentale, incapace di affermare ciò per cui vale la pena vivere e morire, lavorare e soffrire, educare e amare, e così incapace di indicare un’alternativa credibile al terrorismo islamista che avanza.

Ecco dunque il compito di cui è investito il cristiano, personalmente e comunitariamente: «Vivere la fede in tutte le sue implicazioni antropologiche e sociali» (Scola) al fine di documentare la rilevanza umana del fatto cristiano. Solo affrontando le questioni in cui gli uomini e le donne del nostro tempo si trovano invischiati si potrà avanzare loro una proposta buona, valorizzando quanto di vero si trova nell’altro e correggendo – pronti a pagare di persona – le derive ideologiche della mentalità dominante che si va imponendo alle coscienze degli uomini. Perché di questo ha bisogno l’uomo, di essere ridestato da una proposta avvincente che scaldi il cuore e allarghi la mente introducendo all’esistenza tutta, dalla questione affettiva all’educazione, dal lavoro alla riflessione culturale, dall’ambito sociale e caritativo alla realtà giuridica e politica. Il messaggio cristiano è infatti per sua natura incarnato nella storia (Gv 1,14), come ricorda la pregnante analisi del genio cattolico di Péguy, che, individuando nella riduzione del cristianesimo a fenomeno spirituale il motivo ultimo del declino della civiltà cristiana, riaffermava con vigore: «I cristiani sono i più civici tra gli uomini» (Péguy).

Questo dunque l’augurio per il nuovo anno: riprendere consapevolezza della missione di cui la vita del cristiano, per pura grazia, è investita. Niente prende più sul serio la nostra libertà di Cristo: il cristianesimo, in quanto esaltazione della grazia, è esaltazione della libertà.

Foto Ansa

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