Svezia. Un confortevole inferno

"La teoria svedese dell'amore". O di come il paese dell’indipendenza e delle libertà individuali si è trasformato in un posto perfetto. Per morire soli

Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti)

Di un film particolarmente riuscito si suole dire che dovrebbe essere fatto vedere nelle scuole, ma prima che fra i banchi l’ultima produzione di Erik Gandini (qui la nostra intervista) meriterebbe di essere proiettata a Camere riunite, come monito a deputati e senatori in procinto di approvare le proposte di legge che vogliono trasformare l’Italia in un paradiso dei diritti individuali sul modello dei paesi scandinavi. E benché si tratti di pellicola laica laicissima, potrebbe benissimo per una volta sostituire la catechesi di parrocchie e movimenti ecclesiali: chiarirebbe loro le idee intorno alla condizione umana odierna, mostrerebbe loro dove è diretta quella modernità con cui vogliono dialogare. Infine, per assottigliare i flussi di migranti e richiedenti asilo che stanno mettendo in crisi mezza Europa, andrebbe mostrato a chi sta per imbarcarsi sui gommoni a rischio della vita: vedrebbero che l’agognato paradiso del benessere e della sicurezza consiste nella realtà in un confortevole inferno antropologico.

La teoria svedese dell’amore, che debutta nelle sale italiane il 22 settembre, ha un messaggio molto chiaro da comunicare: una società di individui perfettamente liberi perché perfettamente indipendenti è una società di esseri umani infelici, solitari e annoiati. E siccome ogni critica vale per le soluzioni che offre al problema che evidenzia, Gandini non si tira indietro e con l’ausilio del papa laico della sociologia, il 90enne Zygmunt Bauman, propone l’alternativa: scambiare l’indipendenza e la sicurezza materiale con quella speciale versione della dipendenza che è l’interdipendenza, e con un mondo di rischi sia materiali che psicologici.

Che cos’è allora la teoria svedese dell’amore? È l’idea, contenuta nel programma del partito socialdemocratico svedese al tempo del primo governo di Olof Palme (1969-1976), di trasformare la società svedese in una società di individui indipendenti. Rendere i figli indipendenti dai genitori, le donne dagli uomini, gli anziani dai figli. Abolire la dipendenza materiale e psicologica degli uni dagli altri, perché solo in una società di persone tutte ugualmente indipendenti i rapporti fra di esse sarebbero diventati rapporti veramente liberi e autentici, e non condizionati dal bisogno.

Per quarant’anni di seguito i governi, non solo socialdemocratici, si sono applicati a tradurre in realtà tale programma, e il risultato è stato molto lontano da quello atteso: la Svezia non è diventata il paese dei rapporti autentici fra le persone, ma della assenza di rapporti umani. Oggi quasi la metà degli svedesi vivono da soli, uno su quattro muore da solo, e persino i rapporti sessuali, stando ad alcune inchieste, sono diminuiti del 25 per cento nell’arco dell’ultimo ventennio.

Niente meglio di un documentario di Gandini ci rende partecipi di queste realtà. Il suo tocco magico è indubitabile. Il suo stile asciutto solleva onde emotive nello spettatore. Si vede la giovane Maria Elena, madre di due figli concepiti con la fecondazione assistita da donatore anonimo, mentre fa jogging solitario. «Volevo un figlio, non volevo una relazione. Mi piace la compagnia, ma solo temporanea. Sì, a volte mi manca la presenza di qualcuno che mi porti la colazione la mattina, qualcuno con cui discutere le notizie del telegiornale».

Quindi brevi interviste ad alcuni donatori della banca del seme alla quale la donna ha fatto ricorso: un centro danese dove sono contenuti 170 litri di sperma umano, probabilmente il più grande del mondo. I ragazzi mettono a disposizione video e file sonori in cui si presentano. Tutti affermano convintamente di fare quello che fanno per altruismo: «Voglio aiutare gli altri. È incredibile come facendo così poco fai così tanto per gli altri». Non sanno nulla della donna che riceverà il loro seme, nulla mai sapranno dei figli che verranno al mondo e che sono biologicamente loro, ma si sentono buoni perché si masturbano a vantaggio di altri. Metà dei clienti è costituito da donne single, moltissime svedesi. Il kit per l’inseminazione può essere richiesto a domicilio. Arriva col corriere, come i libri di Amazon. Si deve scaldare la busta fra le mani, caricare la siringa, sdraiarsi sul letto a gambe insù, immettere il liquido nella vagina, restare in posizione mezz’ora. E il risultato è garantito.

Compila il modulo, ci pensa lo Stato
Che uno svedese su quattro muore da solo significa anche che il decesso di molti viene scoperto solo parecchio tempo dopo che è avvenuto. La Svezia ha dovuto creare un’apposita agenzia che si occupa di questi casi. I suoi impiegati sono impegnati a cercare parenti introvabili per regolare questioni di successione, e accedono agli appartamenti dei defunti in cerca di indizi. Risalta lo squallore di pareti vuote. Un suicida ha lasciato una busta piena di denaro. È destinato a saldare i suoi debiti con l’Agenzia delle entrate. Altri messaggi non ne ha lasciati. «L’ambizione per l’indipendenza ci ha accecati», commenta tristemente l’impiegata che ne ha già viste troppe.

Sia come sia, la Svezia (insieme alla Germania) è la mèta agognata di centinaia di migliaia di richiedenti asilo. Non appena arrivano, però, vengono messi in guardia. Neeba, profuga siriana e mediatrice culturale, cerca di spiegare ai nuovi arrivati che gli svedesi sono bravi ma poco socievoli: «Non amano le conversazioni, alle domande rispondete “sì” o “no”. A loro piacciono le risposte brevi». Un suo assistito le dice: «Perché dovrei imparare a parlare la lingua? Svedesi non ne incontro mai». Neeba riflette: «Gli svedesi non sono razzisti, si battono per i diritti umani di tutti. Ma desiderano mantenere le distanze. Vivono da soli, il centro di tutto è l’individuo. Se hai bisogno di qualcosa, compili un modulo. E lo Stato ti fornirà ciò di cui hai bisogno».

Il viaggio della speranza. In Africa
Fuori dal sistema sorgono piccoli santuari di calore e comunità. Giovani si incontrano nei boschi alla ricerca di rapporti umani più profondi. I loro sguardi sono mesti: «La nostra società ha per obiettivo la sicurezza, ma la sicurezza non ti rende felice: al contrario, è causa di infelicità. Viviamo soli, siamo gestiti dalla società, e dimentichiamo di prenderci cura l’uno dell’altro personalmente».

Quindi la telecamera fa un volo di parecchie migliaia di chilometri e inquadra la selva subtropicale del Wollega, in Etiopia. Il paese che nel grafico dei valori (sopravvivenza contro autorealizzazione, tradizionalismo contro razionalità) si trova all’estremo opposto rispetto alla Svezia. Lì si è trasferito il dottor Eriksen, per 30 anni chirurgo a Stoccolma. In un modestissimo ospedale totalmente privo di mezzi economici si arrangia per trasformare le cose più strane in presidi sanitari: viti comuni, raggi di ruota di bicicletta, fascette da idraulico, lenze da pesca, fermagli per capelli diventano fissatori, vasocostrittori, viti chirurgiche, eccetera. «Vivere in Etiopia mi ha dato tanto, in Svezia vivevo una vita noiosa», dice. «Qui si vive nella povertà materiale, ma la povertà spirituale della Svezia è di gran lunga superiore. Penso che qualcosa è andato storto nel sistema di ingegneria sociale svedese. La gente si sente troppo sola. Qui la gente non è mai sola: se ti ammali ti vengono a visitare, quando muori piangono la tua morte».

All’ospedale un giorno è arrivata una bambina con un enorme tumore alla lingua. Per salvarla Eriksen ha dovuto asportare l’organo e rimuovere pure la mascella. La ragazzina guarita visita l’ospedale e l’incontro col medico è commovente. C’è più comunicazione fra lei muta e il chirurgo svedese, che fra il medico e i suoi connazionali dotati di parola quando lui torna in Svezia: «Non c’è niente di cui parlare con la gente, sono tutti occupati con le loro cose, sono tutti focalizzati su se stessi».

Tutti connessi ma scollegati
E si arriva così al contributo di Zygmunt Bauman. «Felicità», dice, «non significa una vita priva di problemi. Una vita felice si ottiene superando le difficoltà, fronteggiando i problemi, risolvendoli. La via dell’indipendenza non porta alla felicità, ma a una vita vuota, all’insignificanza della vita e a una noia assoluta e inimmaginabile». I problemi affrontando e risolvendo i quali si fa esperienza di felicità sono sia quelli materiali sia quelli relazionali. E qui Bauman dice alcune cose geniali sulla tribolata questione del dialogo. Rifiutato a priori da alcuni, praticato solo a parole o selettivamente da chi ne fa una bandiera, il dialogo è la prima vittima della società centrata sull’indipendenza degli individui. «Le persone che sono state educate all’indipendenza, stanno perdendo la capacità di negoziare la convivenza con gli altri, perché sono private della capacità di socializzare. Socializzare è faticoso, richiede tanti sforzi, richiede un processo di negoziazione e ri-negoziazione, occorre mettersi in discussione, mediare e ricreare. L’indipendenza ti priva della capacità di fare questo».

Bauman vede la morte del dialogo proprio negli strumenti tecnologici che dovrebbero renderlo più ampiamente praticabile: le tecnologie elettroniche e audiovisive. «La nostra vita è divisa fra due mondi diversi: online e offline, connessi e disconnessi. La vita connessa è in gran parte priva dei normali rischi della vita. Se non ti piace l’attitudine di altri, smetti di comunicare con loro, li disconnetti. Quando sei offline, e incontri per forza le persone reali, devi affrontare il fatto che la gente è diversa, che ci sono molti modi di essere umani. Devi affrontare la necessità del dialogo, devi impegnarti in una conversazione con loro. L’indipendenza ti priva delle abilità necessarie a fare questo. Più sei indipendente, e più sei incapace di fermare questa indipendenza e rimpiazzarla con una piacevole interdipendenza».

Chi propugna il dialogo, ma non accetta di fare l’esperienza della dipendenza dagli altri con cui instaura la conversazione, di fare l’esperienza della dipendenza reciproca, produce inevitabilmente una società malata. O la società in cui tutti si ritirano nel proprio guscio per mantenere intatte le proprie personali convinzioni, o una società alienata dove il gruppo dirigente impone la sua linea al popolo sottomesso. Il dialogo implica la mediazione, il negoziato, cioè la disponibilità a rinunciare alle proprie ragioni e inclinazioni per fare spazio alle ragioni e inclinazioni degli altri. Non ci aiutano i social media, i file audio, i collegamenti video, perché troppo cedevoli alla tentazione di escludere l’interlocutore scomodo, di selezionare solo interlocutori di comodo, coi quali non si vuole veramente dialogare, cioè negoziare, ma solo fare bella figura in pubblico, dando un’impressione di “apertura” al diverso da sé.

Per uscirne, bisogna riscoprire e fare esperienza della dipendenza. Reciproca. Nessuno escluso.

@RodolfoCasadei

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