Spazza corrotti o spazza diritti?

La legge contro la corruzione «punta su un messaggio intimidativo secondo slogan palesemente incostituzionali». Intervista al professore Luciano Eusebi

È uno dei provvedimenti simbolo del governo gialloverde, e in particolare del Movimento 5 stelle, che ne festeggiò l’approvazione brindando in piazza e posando in favore delle telecamere. È la riforma anticorruzione, infaustamente ribattezzata “legge spazzacorrotti”. Un inno al populismo giustizialista: pene più alte, daspo a vita ai corrotti, più carcere, processi a vita con la sospensione (a partire dal 2020) della prescrizione dopo solo una sentenza di primo grado, agente sotto copertura, uso più frequente di trojan per le intercettazioni. La legge è entrata in vigore a fine gennaio, e da allora le polemiche non si sono placate. Alcune misure sono già finite di fronte alla Corte costituzionale, grazie ai ricorsi presentati in tutta Italia – da nord a sud – da tanti giudici chiamati ad applicarne i contenuti sulla carne viva degli imputati. Gli avvocati penalisti sono in un costante stato di mobilitazione, e anche la dottrina più autorevole non smette di sottolineare i pericoli di una stretta legislativa che, più che spazzare via i corrotti, rischia di spazzare via alcuni diritti fondamentali dei cittadini.
Per comprendere a pieno i risvolti di questa riforma abbiamo rivolto alcune domande a Luciano Eusebi, professore ordinario di diritto penale all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, studioso attento da sempre ai temi riguardanti il sistema sanzionatorio penale e i criteri di prevenzione dei reati, e che ora boccia la spazzacorrotti, basata su «slogan ad orientamento palesemente incostituzionale», su una logica di ritorsione, sulla ricerca forcaiola del capro espiatorio e soprattutto su misure di dubbia utilità nella lotta effettiva alla corruzione.

Professor Eusebi, la “legge spazzacorrotti” si pone l’obiettivo – condivisibile – di combattere la corruzione? Ma i suoi contenuti vanno nella giusta direzione?

La strada dovrebbe essere quella di progettare soprattutto una prevenzione primaria reale, che si fonda sul restringere gli spazi praticabili a fini di corruzione, così da incidere in radice sulla possibilità di ricercare illecitamente dei vantaggi. Per esempio, non allargando i paletti inseriti a questi fini nella legislazione sugli appalti. Invece si punta sul messaggio intimidativo, secondo uno slogan ad orientamento palesemente incostituzionale: se vieni colpito, sei finito (e pure per fatti di rilevanza marginale), con preclusione dell’accesso agli stessi percorsi di reintegrazione previsti nella fase esecutiva della pena. Così il punire in maniera drastica casi sporadici e non necessariamente tra i più gravi renderà meno percepibile la persistente difficoltà ad arginare il grosso del fenomeno (che si nasconde, soprattutto, dietro forme poco trasparenti di lobbysmo). Si dimentica, inoltre, che una prevenzione stabile dipende da strategie che, anche attraverso le sanzioni, motivino i consociati come gli stessi agenti di reato a scelte di rispetto dei precetti normativi per convinzione, e non per mero timore: posto che, se si tratta solo di timore, opportunità, mai azzerabili, di delinquere impunemente verranno comunque percorse.

La legge aumenta le pene previste per una serie di reati contro la pubblica amministrazione (dal peculato alle varie tipologie di corruzione). Si tratta dell’ennesimo inasprimento delle pene per queste fattispecie di reato. Non crede che, ormai da tanti anni, si sia di fronte a una tendenza preoccupante a inasprire le pene ogni qualvolta ce ne sia l’occasione, al solo fine di dare all’opinione pubblica l’impressione di una maggiore severità nella repressione dei reati?

È il problema maggiore del diritto penale, che si presenta come strumento di prevenzione, ma viene utilizzato, sempre più, per gestire in modo semplificatorio dinnanzi all’opinione pubblica l’impatto dei fatti criminosi e per acquisire, in tal modo, consenso elettorale. Spesso ciò fa da alibi per la mancata adozione degli strumenti che contrastano davvero il perseguimento di finalità economiche illecite, i quali attengono a modalità diverse dall’utilizzo enfatico della pena detentiva. Del resto, ciò che funziona poco e male, nel nostro Paese, è il sistema dei controlli sulla legalità dei comportamenti. E la questione non si risolve erigendo a capro espiatorio, punito con pene “esemplari”, chi si sia riusciti, talora, a individuare come autore di un reato. A maggior ragione, vorrei aggiungere, quando il reato consista nel prodursi di un evento lesivo colposo: caso in cui si punisce (con pene detentive divenute stratosferiche in certi settori di attività) il soggetto più sfortunato tra molti che hanno tenuto una eguale condotta pericolosa, ma senza conseguenze.

La legge inasprisce anche le pene accessorie conseguenti alla condanna per reati contro la pubblica amministrazione, in particolare introducendo il divieto (cosiddetto daspo) di contrattare con la Pubblica amministrazione in caso di condanne superiori a due anni. La legge prevede la possibilità di ottenere la revoca del daspo in caso di riabilitazione, ma solo passati sette anni dall’espiazione della pena. A questo periodo di tempo andrebbero poi aggiunti i tre anni previsti per ottenere la riabilitazione stessa: in totale quindi dovrebbero trascorrere dieci anni. Crede ci possano essere rischi di incompatibilità con il principio di proporzionalità stabilito dalla Costituzione?

In effetti, è razionale che la reazione sanzionatoria ai reati di corruzione valorizzi le sanzioni interdittive e l’intervento sui profitti illecitamente conseguiti, in modo da incidere sugli interessi materiali in gioco e sullo sfruttamento di determinati ruoli ricoperti. Come pure si può ammettere che la sospensione condizionale, ove applicabile, possa non coprire sempre le pene accessorie. Ma il fatto è che tali scelte sono operate in aggiunta, e non in alternativa, agli inasprimenti delle pene detentive comminate, con l’impressione che quelle scelte vengano ad assumere, per modalità e durata, più un carattere di ulteriore ritorsione, che quello di un’equilibrata rispondenza a esigenze preventive finalmente rese autonome dal ricorso allo strumento detentivo.

Altra grande novità della legge è l’introduzione dell’agente sotto copertura, cioè di un agente delle forze dell’ordine che lavora da infiltrato per scovare i casi di corruzione. Si tratta di una figura già prevista nell’ambito della lotta alla mafia e alle organizzazioni criminali. In quel caso però si ha a che fare con gruppi criminali, non individui singoli. Lei ha capito come potrebbe avvenire l’infiltrazione di un agente sotto copertura in una trattativa per corruzione tra singoli soggetti?

Deve trattarsi di un’attività afferente alla fase del processo e segnatamente delle indagini preliminari, nonché relativa a un accordo illecito già stipulato da altri: dunque di un’attività finalizzata a raccogliere le prove, attraverso tecniche di infiltrazione, di un’attività già in corso costituente reato, non invece di un’attività che abbia per oggetto l’istigazione a commettere reati o che implichi la causazione dei medesimi (attraverso il cosiddetto agente provocatore). Va segnalato, peraltro, che ai sensi della legge numero 146/2006 ci si dovrebbe avvalere di ufficiali di polizia giudiziaria appartenenti a strutture specializzate per realizzare attività sotto copertura nei diversi settori previsti: strutture che tuttavia, per ora, non risultano esistere con riguardo alla corruzione. Il che, del resto, suscita l’interrogativo di come simili attività potrebbero inserirsi nell’ambito di trattative illecite tra singoli (maggiore spazio potrebbe esserci, forse, per individuare contesti di concussione). Ciò che desta perplessità, in radice, è l’aver voluto estendere pressoché automaticamente al contrasto della corruzione, e non solo con riguardo al punto in esame, strumenti pensati, e più volte ridefiniti nel corso degli anni, per il contrasto della criminalità organizzata di tipo soprattutto mafioso. Ancora una volta, si tratta di un’equiparazione enfatica, che può colpire l’opinione pubblica, ma che non garantisce, in assenza di una strategia preventiva specifica in rapporto alla corruzione, risultati corrispondenti ai fini dichiarati e finisce per dar luogo, specie ove si consideri l’apparato sanzionatorio, a conseguenze le quali finiscono, facilmente, per manifestarsi sproporzionate.

In parallelo, la legge prevede anche una causa di non punibilità per chi denuncia un caso di corruzione entro quattro mesi dalla commissione del reato e contribuisce all’individuazione degli altri responsabili, a patto però che il reato denunciato non sia stato premeditato, per esempio per colpire un rivale. Ma come faranno i giudici a valutare la presenza o meno di questa premeditazione nella mente del pentito? In questo modo l’agente provocatore non rischia di “rientrare dalla finestra”?

In effetti, uno dei problemi più delicati circa l’emergere dei fatti di corruzione è costituito dalla parallela punibilità del soggetto pubblico corrotto e del privato corruttore, con il connesso stabilirsi, fra di essi, di un reciproco interesse al silenzio. L’ipotesi di non punibilità ora prevista (intesa a minare la fiducia nella tenuta di quel reciproco interesse) richiede, peraltro, che il soggetto denunciante agisca «prima di avere notizia che nei suoi confronti sono svolte indagini». Circostanza, questa, la quale rende in effetti poco probabili iniziative entro il termine di quattro mesi che non risultino preordinate «rispetto alla commissione del reato», e pertanto irrilevanti.

La legge prevede anche una norma che entrerà in vigore nel 2020 e che va ben oltre il contrasto alla corruzione: la sospensione dei termini di prescrizione dopo il primo grado di giudizio, sia la sentenza di condanna o di assoluzione. Vista la nota lentezza della giustizia italiana, non c’è il rischio di subire processi a vita?

Come ben si sa, vi è un patto politico inteso a rendere inutile simile disposizione in conseguenza di un intervento di riforma più complessivo riguardante il processo penale. Dunque, si vedrà. Va ribadito, tuttavia, che è del tutto inaccettabile creare condizioni suscettibili di tenere per anni il cittadino nell’incertezza circa l’esito di un contenzioso penale, il cui sussistere rappresenta esso stesso una pena di fatto, in rapporto a tutte le conseguenze dirette e indirette del carico pendente. La potestà punitiva può sì essere esercitata, ma non in termini tali che un imputato debba restare ad oltranza nel dubbio circa il suo possibile esercizio.

In Italia oltre il 70 per cento dei procedimenti penali finisce in prescrizione al termine delle indagini preliminari, cioè ben prima di una sentenza di primo grado. La riforma della prescrizione, così come è stata immaginata, rischia allora di risultare piuttosto inutile…

I dati evidenziano come lo strumento idoneo a rendere efficiente la giustizia penale non sia da reperirsi in interventi che incidano sulle garanzie del cittadino, ma nella riforma, che i docenti di materie penalistiche auspicano da moltissimi anni, dell’apparato sanzionatorio penale, tuttora incentrato sulla condanna pressoché esclusiva, al termine del processo, a una pena di carattere detentivo. Sanzioni di tipo diverso e la dilatazione degli strumenti a contenuto sostanziale di definizione anticipata del processo potrebbero avere, infatti, sia un effetto di migliore prevenzione in molteplici settori, sia un effetto di limitazione del contenzioso.

La “spazzacorrotti” ha inserito i reati contro la Pa tra quelli ostativi alla concessione dei benefici penitenziari, peraltro non prevedendo alcuna regolamentazione della fase transitoria. Ciò ha consentito nei primi mesi del nuovo anno di applicare la legge anche ai procedimenti riguardanti reati commessi prima della sua entrata in vigore, e quindi di spedire in carcere persone che avrebbero potuto accedere ai benefici penitenziari (come permessi premio, assegnazione al lavoro esterno e misure alternative alla detenzione). Il caso più celebre riguarda l’ex governatore della Lombardia, Roberto Formigoni, condannato in via definitiva per corruzione e sbattuto nel carcere milanese di Bollate nonostante abbia più di 70 anni e quindi, prima della riforma, avrebbe potuto espiare la pena ai domiciliari. Ma i casi sono numerosi, tant’è che già tre giudici hanno sollevato questione di legittimità costituzionale della legge di fronte alla Consulta. Ha senso, secondo lei, qualificare le norme che riguardano l’esecuzione della pena come “norme procedurali” e non “penali”, giustificando così la loro applicazione retroattiva, come sta avvenendo?

Questo è uno degli aspetti più delicati. Nella legislazione recente l’appesantimento della reazione sanzionatoria non si esprime soltanto attraverso l’evidenza degli aumenti delle pene previste per i singoli reati, ma anche attraverso norme attinenti all’ambito processuale e all’applicabilità delle misure alternative in sede esecutiva. La conseguenza è che due condanne a una stessa durata della detenzione per reati diversi possono avere regimi applicativi estremamente differenziati, fino a vere e proprie presunzioni di non recuperabilità circa gli agenti di certe fattispecie criminose (in totale contrasto con l’articolo 27, terzo comma, della Costituzione). Quando, tuttavia, norme processuali o dell’ordinamento penitenziario vengono a codeterminare, in concreto, la risposta sanzionatoria a un reato, esse assumono contenuto sostanziale. Non può quindi non valere rispetto ad esse l’irretroattività sancita dall’articolo 25 della Costituzione e dall’articolo 2 del codice penale, come la Corte costituzionale appare sempre più orientata a riconoscere, anche in rapporto alla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo.

Foto Ansa

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