La domanda del nostro tempo

Chi si arrende a non riflettere, forse perché scoraggiato dai moderni gnosticismi, si ritrova privo del gusto del vero.

Tratto da sancarlo.org La passione per la verità della persona umana e della sua altissima vocazione alla comunione con Dio, attraverso lo stato di vita cui è chiamata, ha animato il pontificato di san Giovanni Paolo II. L’adesione profonda a questa realtà rivelata e resa possibile da Cristo ha generato nel Papa santo il desiderio che nella Chiesa ci fosse un luogo dedicato allo studio della verità della persona, al valore del matrimonio e della famiglia. Ne scaturì, nel 1982, la fondazione del Pontificio Istituto Giovanni Paolo II per studi su Matrimonio e Famiglia.
Nel 1988 fu inaugurata la sezione nordamericana dell’Istituto a Washington D.C., dove lavoro da qualche anno assieme a don Paolo Prosperi. L’Istituto non si occupa di questioni marginali riservate a pochi addetti ai lavori. Il suo scopo e la sua utilità per la vita e l’autoconsapevolezza della Chiesa sono profondamente legati alla domanda centrale del nostro tempo. Per definire tale domanda, è necessario liberarsi di due fardelli, due pregiudizi che vincolano e appesantiscono il nostro pensiero e la nostra vita.

Fare, e in fretta
Bernanos ha descritto bene il primo fardello: “Ah! Non so se la vita mi ama, ma il buon Dio mi ha dato la grazia di amare la vita, la vita che gli imbecilli attraversano a tutta velocità, senza prendersi il tempo per guardarla, la vita così piena di meravigliosi segreti alla portata di tutti e che nessuno si sogna mai di domandare”. Questa corsa in avanti deriva da una concezione di sé e del valore della vita che ci porta ad essere sempre indaffarati: il fare in continuazione ci inebria e ci illude di esseri liberi e creativi. Purtroppo, ci costringe anche a non fermarci, a non essere mai presenti. Attraversare la vita a tutta velocità fa sì che ci scopriamo, alla fine, appesi a un futuro che non arriva, che ci impedisce di essere autentici, che ci rende succubi dei nostri sentimenti e istinti. Che cosa comporta, di contro, il non essere sempre di corsa? Non è il tentativo di arrestare l’attimo fuggente – il desiderio di Faust -, né si tratta di arrendersi ad una vita grigia, povera di ricerca o di passione. Al contrario, liberarsi dalla fretta significa avere il coraggio di fermarsi a guardare e a contemplare, significa amare e non avere paura di ciò che agli occhi del mondo sembra inutile e improduttivo. A chi contempla, è dato di scoprire e gustare il segreto che è già insito in ciò che abbiamo davanti.

Frammentati, senza bastone
Il secondo pregiudizio di cui occorre sbarazzarsi è la frammentazione in cui siamo immersi. Essa è così radicale che ci fa credere che la nostra vita sia un insieme di parti giustapposte. Oggi il sapere è frantumato in ambiti di specializzazione sempre più ridotti e tra loro sconnessi. Sapere tutto di medicina, ad esempio, rende molto difficile conoscere qualcosa del resto. Tra l’altro, ci si chiede: che cosa ci guadagna il fisico con la letteratura o il filosofo con la matematica? Le nostre università sono diventate, come suggeriva George Grant, “multi-versità”. Luoghi in cui, invece di imparare a stupirsi per ciò che esiste e a dare forma alle cose alla luce del loro segreto, s’insegna come produrre sempre più idee che rifiutano un fondamento ultimo e che ci rendono “imbecilli” (etimologicamente, “senza bacolo, senza bastone”): persone che nel loro cammino sono prive del sostegno della verità. La frammentazione non si corregge costringendo i saperi in un’unità ignara del legame profondo di ogni parte con il tutto. Chi si arrende a non riflettere, forse perché scoraggiato dai moderni gnosticismi, si ritrova privo del gusto del vero.

Un essere “astratto”?
La vita vissuta “a tutta velocità” e la frammentazione gnostica sono i due catenacci che ci rendono arduo ascoltare e pensare. E ostacolano la domanda che portiamo impressa dentro di noi, impedendole di interpellarci e di svelarci il segreto che ha in serbo per noi.
La posta in gioco è la capacità che l’uomo ha di fare e di sentire. Piuttosto che introdurre un ritmo diverso nella vita o cercare di assicurare che ciò che l’uomo compie è per il bene suo e della società, è importante capire quale sia la concezione dell’uomo che guida il nostro modo di sentire e di fare. Altrimenti, quei pregiudizi continueranno ad informare tutte le nostre risposte.
Oggi l’uomo ritiene che ciò che egli è, compreso il suo essere corporeo maschile e femminile, non sia dato ma sia determinato da lui stesso. Benedetto XVI disse che “oggi esiste soltanto l’essere umano astratto, che sceglie per se stesso ciò che la sua natura deve essere”. “Astratto” significa “separato da”: si pensa di riuscire a cogliere l’essenza dell’uomo indipendentemente dal fatto che è nato da un padre e una madre, che ha un corpo maschile o femminile, che è chiamato a formare una comunione di persone e che può essere fecondo solo dentro di essa. Astratto dai rapporti che lo costituiscono, l’uomo ricrea se stesso secondo un’immagine autoprodotta. Questa è la negazione più radicale di Dio. Uno degli esempi in cui si rende più evidente questa nuova creazione dell’uomo è il cambiamento del modo con cui si guarda all’omosessualità (il cardinale Caffarra ha acutamente parlato di una sua “nobilitazione”), che, grazie alla tecnologia, assurge a obiettivi prima impensabili: le “coppie gay”, ad esempio, possono oggi fare, in un certo qual modo, esperienza della fecondità e i transessuali legittimare la loro autodefinizione di genere grazie ai progressi scientifici, medici e tecnologici.

Un essere donato
Ecco quindi la domanda su cui siamo chiamati a riflettere e alla quale l’Istituto dedica il proprio lavoro: “Chi è l’uomo?”. Questa domanda è antica ma oggi risuona in modo nuovo. Alla luce dell’amore di Dio rivelatosi in Cristo, siamo chiamati a scoprire lo spessore ontologico dell’uomo, nella sua concretezza maschile e femminile, nel suo essere chiamato alla comunione con Dio attraverso la vocazione e la condizione di vita, il matrimonio o la verginità consacrata. La domanda, oggi, ha quindi due aspetti: chi è l’uomo, maschio e femmina? Che cos’è l’amore a cui è chiamato e che costituisce il suo essere?
Giovanni Paolo II disse che “l’avvenire dell’umanità passa attraverso la famiglia”. Non si limita a banalità sociologiche, seppur vere, del tipo: senza famiglia non ci sono bambini e la società si estinguerà. Egli sostiene che il destino dell’uomo passa attraverso la famiglia, comunione di persone fondata nell’amore indissolubile di un uomo e una donna, perché rivela l’uomo a sé e gli permette di vivere secondo quello che è: l’unica creatura voluta per se stessa. Nella famiglia, l’uomo scopre che non è all’origine di sé e che si compie nel donarsi all’altro. Essendo dono, l’uomo è se stesso quando esiste e vive per un altro. Al di fuori di questi rapporti, l’uomo non può esperire pienamente l’amore e difficilmente può scoprire chi è Dio e che cosa significa vivere per Lui.

Custodire la verità dell’uomo
Porsi di fronte a queste due domande – “Chi è l’uomo? Che cosa è l’amore che lo costituisce?” – con le orecchie otturate dai pregiudizi che ho descritto, ci porta a concludere che riflettere su tutto questo sia inutile e inconcludente, che chi si dedica a questo genere di osservazioni sia una persona lontana dalla vita, che non capisce che cosa sia la verità oppure non conosce il metodo per parlarne. Ma come potrà il cristiano oggi assolvere il compito di custodire la verità dell’uomo, del mondo e dell’essere, se lasciamo cadere questa domanda nel silenzio rumoroso della nostra fretta e della nostra ansia di ricrearci da soli? Rispondere a questa domanda è l’affascinante compito che ci è stato affidato e che portiamo avanti assieme. L’Istituto, infatti, ha il dono di vivere anche della comunione tra gli insegnanti e del loro dialogo, cui gli studenti partecipano e grazie al quale, nel tempo, imparano a pensare e a vivere in maniera radicale e autentica.

Antonio López è docente al John Paul II Institute di Washington (Usa)

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